Il D.Lgs. 36/2021 differenzia i soggetti che prestano attività in favore di un ente sportivo, tra coloro i quali svolgono “attività sportiva verso un corrispettivo” e coloro che, invece, “mettono a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere lo sport, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti, ma esclusivamente con finalità amatoriali”. Questi ultimi vengono definiti volontari, mutuando la disciplina da quella contenuta all’articolo 17, D.Lgs. 117/2017 (c.d. codice del terzo settore).
La caratteristica che accomuna i predetti lavoratori è che il loro interesse non ha presupposti di carattere economico, ma esclusivamente “affectionis vel benevolentiae causa”.
Sulla falsariga di quanto già previsto per i volontari degli Ets, il D.Lgs. 120/2023 (c.d. decreto correttivo bis) ha introdotto, all’articolo 29, D.Lgs. 36/2021, la possibilità di rimborsare al volontario spese autocertificate (e pertanto prive di un proprio giustificativo) sino ad un importo di 150 euro mensili, purché l’organo sociale competente deliberi sulle tipologie di spese e sulle attività di volontariato, per le quali è ammessa questa modalità di rimborso.
Appare necessario chiarire che questi 150 euro sono solo un limite dei rimborsi autocertificati, ma possono essere cumulati con altri ulteriori rimborsi documentati di costi sostenuti in nome e per conto della associazione. Ovviamente sono un massimo e, pertanto, se i costi autocertificati fossero superiori a tale cifra, l’importo massimo da riconoscere sarà sempre 150 euro, mentre se fossero inferiori, potrà essere rimborsata solo la cifra indicata.
I volontari debbono occuparsi delle attività istituzionali delle sportive, ivi compresa la formazione, la didattica e la preparazione degli atleti. A questo proposito, ha fatto molto discutere la previsione che al volontario possano essere rimborsate “esclusivamente” le spese di trasferta fuori dal proprio comune di residenza. In realtà, questo era già previsto dall’articolo 69, comma 2, Tuir, anche prima che entrasse in vigore il D.Lgs. 36/2021. Stando alla nuova normativa, solo il trasferimento da un comune all’altro consente di poter verificare in maniera oggettiva la distanza percorsa. Questo non significa che non possa essere riconosciuto un rimborso per il trasferimento nello stesso comune, ma soltanto che, al ricorrere di tale fattispecie, il rimborso costituirà una forma di compenso e farà uscire il percettore dalla fattispecie dei volontari. Così come potranno essere riconosciuti rimborsi di altro genere, per spese anticipate e idoneamente documentate, diverse da quelle di viaggio, vitto e alloggio.
Inoltre, è ammessa la possibilità che il volontario atleta o tecnico possa percepire i premi, secondo quanto previsto dall’articolo 36, comma 6 quater, D.Lgs. 36/2021.
Il comma 3, dell’articolo 29, D.Lgs. 36/2021, prevede, invece, che le prestazioni del volontario siano “incompatibili con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonomo … con l’ente di cui il volontario è socio o associato o tramite il quale svolge la propria attività sportiva”.
Va chiarito che questa norma non impedisce al lavoratore sportivo di un sodalizio di collaborare, in maniera disinteressata, se ed in quanto disponibile, in maniera episodica all’attività sportiva del proprio committente, anche per prestazioni diverse da quelle indicate nel proprio contratto di lavoro. Sarebbe illogico e, comunque, la norma, per come indicata, non prevede una sanzione in caso di “inadempimento” a questa incompatibilità.
Così come, si ritiene possa essere conciliabile con la previsione normativa, l’eventuale “elezione” del lavoratore sportivo (non subordinato) nell’organo amministrativo in modo, comunque, che non si possa costituire una forma di “controllo” sull’attività svolta.
Diventa necessario arrivare, quindi, a quello che si ritiene essere la ratio della norma.
L’obiettivo, ad avviso dello scrivente, non è quello di evitare che il lavoratore sportivo svolga una attività “ulteriore” gratuitamente, rispetto a quella oggetto del rapporto di lavoro, quanto quello di evitare che, mansioni diverse da quelle di lavoro sportivo, possano essere “retribuite” con le facilitazioni tassativamente ed esclusivamente previste per le fattispecie tipizzate dal legislatore. Questo diventa, in caso di controversia, l’onere da provare, ossia che la prestazione gratuita e disinteressata, lo fosse veramente e non venisse, in realtà, retribuita fittiziamente con la disciplina del lavoro sportivo. Quindi, il compenso dovrà essere congruo e commisurato all’attività effettivamente svolta ed in linea con quello riconosciuto ad altri lavoratori con mansioni similari. In questo caso, ma solo in questo, si ritiene che possa essere compatibile un’attività di lavoro sportivo per il medesimo committente. Si pensi, ad esempio, al lavoro che fanno gli arbitri, gratuitamente, presso le strutture territoriali delle organizzazioni affilianti. Illogico pensare di considerarlo contra legem.
A maggior ragione, il problema si pone in quei casi, frequenti nello sport, in cui la governance della associazione è formata da elementi legati da rapporti di parentela o di coniugio. In questo caso, il rischio che ci si trovi di fronte alla incompatibilità è molto alto.
Rimane un ultimo aspetto da considerare, ovverosia la posizione del socio “non amministratore” di una ssd. Può fare un contratto di lavoro sportivo come istruttore con la sportiva di cui è socio, magari di controllo?
Anche qui diventa basilare poter dimostrare che: