La conclusione delle attività agonistiche ha portato, come accade spesso in questo periodo, all’attenzione della cronaca le situazioni di disequilibrio economico – finanziario del mondo dello sport in generale e di quello degli sport di squadra in particolare. Una importante società italiana di calcio non ammessa alla disputa delle coppe europee, una di basket che sta correndo il rischio, per fenomeni di doping amministrativo, che gli siano revocati i numerosi scudetti vinti negli ultimi anni, una società calabrese, portabandiera della pallavolo del sud, che sede i propri diritti sportivi a Milano. E questo appare solo la punta dell’iceberg. La stampa specializzata giornalmente dà notizia di altri club, anche in altre discipline sportive, in reale o presunta crisi finanziaria. Cosa sta succedendo?
Il legislatore, come è noto, aveva distinto l’attività sportiva professionistica da quella dilettantistica, in origine, sotto il prof ilo dell’onerosità, e dando agli organismi sportivi (Federazioni sportive) una funzione di controllo e denuncia (vedi art. 12 e 13 della legge 91/81) sulle attività, anche di carattere economico, poste in essere dalle società professionistiche”.
In realtà questa distinzione presto perse la connotazione economica in quanto il fenomeno del “dilettantismo retribuito” divenne sempre più vasto tant’è che da oltre un decennio nessuno sport di squadra attiva un settore professionistico. La ragione è presto verificabile e individuabile andando a vedere, ad esempio, sul sito dell’associazione calciatori le tabelle “lordo/netto” ivi riportate per le attività professionistiche e per quelle dilettantistiche.
Su un compenso netto per l’atleta di 21.000 euro (ed è un peccato che le tabelle per le attività dilettantistica non prevedano compensi maggiori, ormai abituali in molte realtà, che potrebbero dare risultati maggiormente significativi), il costo per la società dilettantistica è pari a euro 25.822, per quella professionistica 30.500. Il differenziale è dato prevalentemente da oneri previdenziali assenti nel primo caso e presenti nel secondo.
Aumentando il compenso la forbice si allarga di conseguenza Pertanto il passaggio al professionismo, unica soluzione che potrebbe dare risposte certe stabilite per legge (anche se da riformare) significherebbe, anche sulla fascia inferiore del range dei compensi, un incremento di circa il 20% dei costi. In una fase di recessione economica, un aumento di tale misura appare difficilmente compatibile con il sistema. La strada, pertanto, del professionismo, almeno per come oggi attualmente disciplinato sembrerebbe preclusa. Molti bilanci di società sportive dilettantistiche di vertice trovano il loro equilibrio iscrivendo allo stato patrimoniale due valori: il diritto sportivo alla disputa di un determinato campionato e la titolarità dei diritti sulle prestazioni sportive degli atleti.
Sul primo valore il Coni già nel 2006 aveva invitato le Federazioni ad adottare regolamenti che escludessero ogni valutazione patrimoniale di detto diritto. Il recepimento di questa indicazione non appare ancora attuato ma la condivisa presa di posizione del massimo ente sportivo italiano dovrebbe, almeno prudenzialmente, spingere le società ad azzerare, ove presente, questo indicatore.
Per quanto riguarda il c.d. cartellino va detto che dopo l’abrogazione da parte del Coni del vincolo a tempo indeterminato, molte Federazioni rispettarono il disposto ma inserirono, comunque (e mantengono inseriti) parametri di svincolo che garantiscono un ritorno patrimoniale alla società di precedente tesseramento. Ma, sotto questo prof ilo, appare illuminante leggere quanto Claudio Coccia, giurista e grande dirigente sportivo, scriveva oltre venticinque anni fa: “oltre che giuridicamente improponibile, questa classificazione è anche economicamente erronea. I giocatori non sono beni fungibili, il loro valore patrimoniale è quindi del tutto aleatorio e come tale non finanziariamente valutabile. Alea soggettiva ed oggettiva. Soggettiva perché continuare a giocare o smettere è facoltà discrezionale del giocatore stesso, dipendente anche da cause estranee alla sua volontà, così come il suo valore tecnico non può essere correlato con sicurezza a nessun indice statistico basato nè sull’età né sul rendimento precedente…. L’alea è altresì oggettiva perché non basta avere la possibilità di cedere un giocatore per poter realizzare un prezzo corrispondente all’ipotetico valore di mercato. Non basta perché occorre trovare la società che abbia la volontà ed i mezzi per acquistarlo, avere l’adesione del giocatore al trasferimento, poter riscuotere quanto pattuito…. la provvisorietà che ne deriva è una costante da cui non può prescindersi. In specie, se ai costi di acquisto si aggiunga che lo pseudo “capitale-giocatori” occorre anche a garantire l’accumulo dei disavanzi delle gestioni annuali”.
E’ chiaro che se venissero meno in bilancio, come dovrebbero per i motivi sopra esposti, tali valori emergerebbe la necessità di ricapitalizzare molti dei club che attualmente fanno attività.
Il sistema macroeconomico degli sport di squadra si è retto, finora, ovviamente con le dovute e debite eccezioni, in gran parte su una economia di “carta” che ha visto spesso valorizzare cespiti di dubbia esigibilità.
Questo ha prodotto un’attività “drogata” che ha costretto, almeno nel dilettantismo, ad avere lavoratori privi di garanzie e società molto deboli sotto il prof ilo patrimoniale, in sintesi “si è privilegiato il conto economico allo stato patrimoniale”.
E’ chiaro che, a questo punto, anche le regole dello sport dilettantistico dovranno essere adeguate per affrontare tale realtà.
Potrà bastare? Lo escludo: le motivazioni della recessione non sono solo giuridiche od economiche, sono etiche. E’ cambiato lo sport, non necessariamente in peggio ma è sicuramente una cosa diversa da quella che era anche solo dieci anni fa. Pertanto credo che la strada sia una sola, il recupero dei “valori” dello sport, magari nuovi ma valori; l’attività si fa se si può fare e non solo perché “serve farla”, non si può continuare solo per pagare i debiti dell’anno prima, gli atleti devono capire che ventimila euro netti l’anno, spesso snobbati, sono non il salario di ingresso nel mondo del lavoro (come nel loro caso) ma di uscita prima del pensionamento per milioni di nostri connazionali. Le regole devono essere fatte e rispettate “prima”. Troppe volte le abbiamo adattate alle esigenze e le conseguenze sono quelle sopra descritte.
Della serie recuperiamo la “diligenza del buon padre di famiglia” il buon senso e la ragione. E non chiamiamo serie A o prime divisioni quelle che in realtà sono la terza serie delle proprie discipline. Sono solo operazioni di facciata che producono aumenti dei costi di cui il sistema sport, in questo momento, non ne sente proprio la necessità.