La legge 11 marzo 2014 n. 23, recante la delega al Governo di emanare disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita, non può che lasciare insoddisfatti gli operatori del terzo settore per l’assoluta assenza di spirito riformatore.
Nella prima riforma degli anni ’70 le associazioni senza scopo di lucro, ossia quegli enti che, in via sussidiaria, non svolgendo attività pubbliche o di impresa, si occupavano di servizi sociali e i cui ricavi erano sostanzialmente legati a sussidi di carattere pubblico (contribuzioni) venivano inquadrati tra gli enti non commerciali.
Tutto il sistema era costruito, indipendentemente dalla finalità lucrativa, attorno allo svolgimento di attività economiche estranea alla logica di impresa.
Sintomatico, sotto questo profilo, la disciplina delle organizzazioni di volontariato che espressamente prevedevano lo svolgimento di attività commerciali in via marginale la cui identificazione è stata oggetto di apposito decreto.
Tant’è che quando il legislatore costruì la figura della imprese non lucrative di utilità sociale (d.lgs. 155/06) non collegò tale fattispecie ad alcuna agevolazione fiscale proprio sul presupposto che trattavasi di enti che avrebbero comunque dovuto operare all’interno del mercato, anche se senza finalità profittevoli.
Pertanto la distinzione ai fini fiscali non era data dalla finalità lucrativa o meno ma dallo svolgimento o meno di attività di impresa o come comunemente definite commerciali. Le agevolazioni fiscali derivavano, pertanto, dalla circostanza che il soggetto non svolgesse attività concorrenziale con i soggetti commerciali e che, essendo finanziati in maniera importante con risorse pubbliche, il basso livello di imposizione giustificasse anche un minor esborso contributivo a carico delle pubbliche amministrazioni.
Il venir meno di due degli aspetti fondanti tale sistema, la riduzione dell’apporto dei c.d. volontari nel senso più classico del termine e la forte riduzione delle risorse pubbliche destinate alla contribuzione ha posto il problema della necessità per tali enti di reperire risorse sotto il profilo dello svolgimento dell’attività di impresa.
Sintomatica, sotto questo profilo appare la sensibilità del legislatore fiscale nell’aver escluso le associazioni sportive dalla disciplina della perdita della qualifica di ente non commerciale prevista dall’art. 149 del Tuir, l’aver inserito tra i soggetti del terzo settore anche realtà “commerciali” come le cooperative sociali o le società di capitali o le cooperative sportive dilettantistiche senza scopo di lucro (mostri ritenuti dall’Agenzia delle entrate soggetti commerciali che possono applicare le agevolazioni fiscali previste per gli enti non commerciali).
Il problema appare essere quello che il legislatore fiscale sembra, in questa materia, rincorrere dinamiche economiche che il diritto civile non ha ancora metabolizzato e disciplinato.
L’ Agenzia delle entrate lo ha riconosciuto con la sua recente risoluzione n. 38/E del 11.04.2014 laddove ha espressamente indicato che: “non esiste una compiuta disciplina civilistica relativa agli sportivi dilettanti” ma, ben più importante, sembra averlo riconosciuto anche la politica con le dichiarazioni del Presidente del Consiglio al recente festival del volontariato di Lucca a cui hanno fatto seguito quelle riportate, dal quotidiano telematico “Vita.it” del Sottosegretario Bobba che gestisce la delega al Terzo Settore che riconosce che si dovrà: “partire dal riordino della legislazione nel suo insieme per dare una base civilistica che faccia da pavimento a tutti questi mondi“.
Probabilmente sarà sufficiente riprendere mano ai numerosi studi che la letteratura giuridica, già a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso (un accenno per tutti al progetto redatto a cura del Prof. Rescigno), ha dedicato alla riforma del primo libro del codice civile.
Non vi è dubbio che compito ingrato del legislatore tributario appare ora quello dare compiuta disciplina ad un settore che sotto il profilo civilistico offre (e mi sto rivolgendo al mondo più numeroso, quello delle associazioni non riconosciute) all’interprete appena tre articoli di riferimento (artt. 36 – 38 cod. civ).
Sotto questo profilo sembrava avesse osato di più la Legge 7.04.2003 n. 80 – che conteneva la delega della c.d. riforma Tremonti. Veniva infatti previsto:
a) L’inclusione degli enti non commerciali tra i soggetti passivi dell’IRE;
b) La progressiva sostituzione delle detrazioni e articolazione delle deduzioni sulla base di una serie di criteri valoriali espressamente indicati;
c) la previsione di norme che consentissero, nel rispetto dei principi di semplicità, trasparenza ed efficienza di escludere dalla base imponibile dell’Iva la quota del corrispettivo destinato dal consumatore finale a finalità etiche;
d) Il mantenimento di un regime fiscale semplificato per le società sportive dilettantistiche.
Tali indicazioni non hanno trovato, però, completa disciplina in quanto nel decreto legislativo 12.12.2003 n. 344 in vigore dal primo gennaio 2004 gli enti non commerciali sono rimasti soggetti all’imposta sul reddito delle società (Ires) al pari delle società di capitali. Vi è stata, quindi, una sospensione di delega che ha rinviato la riforma degli enti non commerciali con alcune eccezioni, non proprio lodevoli, legate alle novità introdotte per il mondo dei sodalizi sportivi dall’art. 90 della legge 289/02 (finanziaria 2003).
La vigente legge delega non affronta in alcun modo il settore
L’unico accenno specifico appare essere quello contenuto nella seconda parte del secondo comma dell’art. 4 teso alla stabilizzazione dell’istituto della destinazione del 5 per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche in base alle scelte espresse dai contribuenti.
Importante occasione mancata?