27/04/2016 di Guido Martinelli
Il dizionario italiano, alla voce “termine” elenca, tra gli altri, due significati: il primo è “limite estremo di tempo entro il quale compiere qualcosa” e il secondo è “vocabolo peculiare di una determinata disciplina, di un linguaggio settoriale”. Ho riletto queste definizioni dopo aver letto il testo del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 21.03.2016 recante la “Disciplina dei criteri per la destinazione del due per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche a favore di associazioni culturali ai sensi dell’articolo 1 comma 985 della legge 28 dicembre 2015 n. 208”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 95 del 23.04.2016.
Già ieri davamo notizia di questo decreto che contiene un termine di decadenza già scaduto ancora prima della sua entrata in vigore. Infatti, l’articolo 1, comma 2, prevede che le associazioni interessate ad essere ammesse nel registro dei potenziali beneficiari di detto contributo debbano presentare istanza di iscrizione “entro il 10 aprile 2016”.
Non è un errore di stampa. Ma vi è di più, la stessa Gazzetta indica che il decreto è stato registrato alla Corte dei Conti in data 12 aprile 2016. Pertanto, pur senza volere disquisire sulla natura “non regolamentare” di questo decreto, per come indicato dalla legge che ne è causa (articolo 1 comma 985 L. 208/2015), e senza scomodare l’articolo 32, comma 1, L. 69/2009, secondo cui “a far data dal 1 gennaio 2010 gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei propri siti informatici da parte delle amministrazioni e degli enti pubblici obbligati”, non vi è dubbio che un termine come quello in esame, che esclude dalla possibilità di ricevere questi contributi tutte le associazioni che non siano state assidue frequentatrici del sito del Ministero del Beni e delle Attività culturali, unico luogo che aveva dato notizia in anticipo del termine e delle procedure da adottare per l’inserimento nell’elenco, appare, ad avviso di chi scrive, una colossale beffa.
Ma le sorprese non finiscono qui.
Requisito per l’iscrizione “sarebbe” stata la finalità di svolgere e/o promuovere attività culturali, di essere esistenti da almeno un quinquennio e l’allegazione di “una relazione sintetica descrittiva dell’attività di promozione di attività culturali svolta nell’ultimo quinquennio”.
Ma cosa significa attività culturali? Il legislatore tributario non è nuovo all’utilizzo di detto termine. Lo ritroviamo anche all’articolo 148 del Tuir laddove, al comma 3, precisa la non imponibilità dei corrispettivi specifici versati da associati e tesserati, appunto, in favore delle associazioni culturali. Ma quando una associazione può ritenersi tale e poter godere legittimamente di una agevolazione per l’esercizio della quale, per costante giurisprudenza, deve poter dimostrare in giudizio la titolarità della agevolazione stessa? Una associazione che organizza corsi di yoga fa sport o cultura? Capite che rispondere in un modo o nell’altro (ed entrambe le risposte potrebbero essere corrette) significa mutare considerevolmente il panorama delle agevolazioni applicabili.
Ma l’esempio di termini dal significato vago utilizzati dal legislatore tributario non si esaurisce qui. Basti ricordare il famoso articolo 67, primo comma, lett. m), del Tuir, laddove la disciplina sui compensi agli sportivi viene estesa alle prestazioni non professionali “da parte di cori, bande musicali e filodrammatiche che perseguono finalità dilettantistiche”. Mi piacerebbe sapere quali caratteristiche deve avere una associazione per essere definita quale coro dilettantistico.
Tornando ai requisiti richiesti dal decreto pubblicato sabato scorso, questi debbono essere attestati tramite una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà. Ma se una associazione è stata costituita cinque anni fa, ha fatto attività un anno e poi è rimasta inattiva, ha diritto al due per mille? È sufficiente, nel quinquennio, una sola manifestazione per giustificare l’inserimento nell’elenco? Quali conseguenze ci potranno essere per un legale rappresentante che attesti l’esistenza di requisiti la cui reale consistenza non è in grado di valutare?
Ancora una volta il terzo settore dovrà rimboccarsi le maniche e far finta di essere stato aiutato.
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29/03/2016 di Guido Martinelli
L’esame del testo uscito dalle Commissioni del Senato per il voto in aula del disegno di legge delega per la riforma del terzo settore si caratterizza per non citare mai la parola sport. Questo produce immediatamente un dubbio: possiamo considerare ufficialmente ancora lo sport all’interno del c.d. “terzo settore”?
Il Presidente del Coni, in una recente intervista, è tornato sulla necessità di riformare la legge 91/1981 sul professionismo sportivo.
Questa doppia circostanza merita approfondimenti che non si possono esaurire in poche battute ma qualche spunto potremmo iniziare a formularlo.
Fu negli anni ottanta che maturarono le problematiche che costrinsero ben presto le istituzioni sportive, da un lato, a rivedere la tradizionale identificazione dello sport come attività meramente amatoriale, aprendo i primi spiragli a varie forme di redditività legata alle attività sportive ed il nostro legislatore, dall’altro, ad abbandonare la tradizionale posizione di agnostico disinteresse e ad emanare la legge n. 91/1981 sul professionismo sportivo. E fu proprio nel corso dell’iter di quella legge, tra l’altro, che i suoi estensori dovettero sperimentare la singolare riottosità della materia sportiva ad essere inquadrata in schemi giuridici, essendo, com’è noto, la scelta in favore della subordinazione il frutto del ribaltamento del testo originario, che aveva invece optato per la configurazione del professionismo sportivo come lavoro autonomo. Tant’è che si dovettero introdurre le eccezioni alle normative sul lavoro subordinato riportate ai commi 7, 8 e 9 dell’articolo 4 della legge 91/1981. L’articolo 1 divise il mondo dello sport in due grandi settori: il professionismo e il dilettantismo. Anche il primo, comunque, fino al 1996 rimase rigorosamente “non profit” (le società dovevano reinvestite tutti gli utili prodotti). Non vi era dubbio che, ab origine, l’intento fosse quello di effettuare una differenziazione di carattere economico, da una parte i soggetti che “vivevano di sport”, dall’altra gli amateurs.
Fu proprio la legge n. 91/1981, emanata per far emergere e disciplinare gli aspetti lavoristico-sportivi, a far nascere analoghe questioni anche per i dilettanti, posto che la stessa non ha affatto disciplinato il lavoro nello sport nella sua interezza, ma solo quello che si svolge nell’ambito delle quattro federazioni sportive rimaste con tale qualifica (calcio, ciclismo, golf, pallacanestro) secondo la originaria delibera del Consiglio Nazionale del CONI del 2 maggio 1988, Ecco allora che, accanto alle problematiche del dilettante in senso tradizionale, o se si preferisce del dilettante che gioca, di natura essenzialmente associativa, si pongono quelle del dilettante che lavora, o che comunque percepisce compensi, per il quale la qualifica formale che gli deriva dalla federazione di appartenenza non può certo precludere la valutaziones sostanziale, in ambito statuale e comunitario, del rapporto che lo lega alla propria società con l’avvertenza, però, che il discrimen tra i due aspetti è facilmente individuabile solo sulla carta, a livello concettuale.
Il termine dilettante nella Carta Olimpica oggi non esiste più, ed attualmente la Regola 45 si limita a rimandare, per l’ammissione degli atleti ai giochi, alle “prescrizioni delle corrispondenti federazioni internazionali, mentre la norma di attuazione della medesima si limita solo ad affermare, invero sterilmente, che l’iscrizione e la partecipazione dei concorrenti non devono essere condizionate da considerazioni finanziarie, e che agli stessi è fatto divieto di pubblicizzare nomi e immagini, ……per il sol fatto che il relativo sfruttamento se lo è riservato il CIO”. La realtà è che lo status di dilettante, svuotato dei contenuti per cui era stato concepito appare ormai, com’è stato icasticamente osservato, “un relitto del sistema”. Tant’è che oggi il nuovo statuto del Coni utilizza il termine “non professionistico” al posto di dilettantistico. Già attualmente, del resto, lo status formale di dilettante non offre alcun parametro per risolvere questioni operative al di là dell’ambito meramente endoassociativo.
Ma se, ovviamente, da un certo livello di attività e di organizzazione, sembra ormai avviata la strada verso un allargamento dell’area professionistica, sia pure con regole modificate rispetto a quelle attuali, non potrà che conseguirne che gli enti collettivi che ne saranno protagonisti non potranno continuare ad essere con il “divieto di scopo di lucro anche indiretto”. Questo andrà a collidere con la previsione del primo comma dell’articolo 1 del disegno di legge sopra citato che testualmente riporta: “ Per Terzo settore si intende il complesso di enti privati costituiti per il perseguimento senza scopo di lucro di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi”.
Un futuro dello sport fuori dal terzo settore?
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Il legislatore della finanziaria del 2003 (legge 289/02), nel recare nell’articolo 90 “disposizioni per l’attività sportiva dilettantistica”, aveva, al comma 17, indicato le forme costitutive delle associazioni e società sportive dilettantistiche identificandole esclusivamente con le associazioni, riconosciute e non, di cui al primo libro del codice civile e le società di capitali. Aveva completamente omesso di citare le cooperative che, per la loro natura, non sembravano incontrare nessun ostacolo ad ottenere detto riconoscimento. Possibilità invece, che non avrebbero mai potuto ottenere le società di persone in quanto, la confusione tra il patrimonio sociale e quello dei singoli soci, impedisce di verificare il rispetto della norma di assenza di scopo di lucro.
Si arriva, per rimediare alla dimenticanza, alla legge n. 128/2004 (legge di conversione del D.L. 22 marzo 2004, n. 72), che integra le forme costitutive delle società sportive dilettantistiche introducendo la possibilità di utilizzare anche la forma della società cooperativa.
Tuttavia, con questo provvedimento, il legislatore si è limitato alla semplice integrazionedegli schemi societari previsti dall’articolo 90 comma 17, tralasciando, invece, di specificare il riferimento alla società cooperativa negli altri commi dell’articolo 90 che estendono alle società sportive dilettantistiche i benefici fiscali già previsti per le associazioni.
Infatti, se al comma 17, lett. c), è stato espressamente introdotto che le società sportive dilettantistiche possono costituirsi anche in forma di società cooperativa, al comma 1, l’estensione delle disposizioni tributarie previste per le associazioni sportive dilettantistiche viene esplicitamente attuata solo nei confronti delle società di capitali senza scopo di lucro, non introducendo alcuna chiara menzione alle società cooperative.
Naturalmente, sarebbe un controsenso ritenere che, ai sensi del comma 17, le società sportive dilettantistiche possano assumere la forma di cooperativa e negare, poi, alle stesse l’applicazione del regime agevolativo, adducendo che il modello cooperativo non risulta espressamente richiamato dal comma 1.
In tal senso, si è espresso anche il Consiglio Nazionale del Notariato, nello Studio del n.93/2004/T intitolato “Società e associazioni sportive”, approvato dalla Commissione studi tributari il 22/4/2005, nel quale viene osservato che “l’omesso riferimento nel comma uno alla forma giuridica della cooperativa è frutto della mancanza di coordinamento tra due interventi normativi che sono stati effettuati in tempi diversi. L’ultimo di essi ha modificato il comma 17 dimenticando di intervenire sul precedente comma 1. D’altra parte appare ragionevole osservare che se il legislatore ha voluto estendere le agevolazioni fiscali previste per il settore sportivo perfino in favore delle società non lucrative, le quali possono fruire del regime forfetario di cui alla citata legge n. 398/1991, non si comprende per quali ragioni la medesima possibilità debba essere negata alle cooperative. Si ritiene, dunque, come la mancata modifica del predetto comma 1 dell’articolo 90, che non contiene alcun riferimento alla forma della cooperativa, non impedisca di estendere l’applicabilità di tale regime anche nei confronti dei predetti soggetti”.
Assodato ciò ritengo che la forma cooperativa sia, invece, l’evoluzione naturale del modello associativo, che ha dato ottima prova di sé nello sviluppo dello sport nella seconda metà del novecento, evoluzione verso quella impresa sociale multifunzionale che appare lo sbocco, praticamente obbligato, del futuro della organizzazione sportiva in Italia.
Infatti, rispetto alla società sportiva a responsabilità limitata senza scopo di lucro o alla associazione riconosciuta, i modelli evolutivi ai quali oggi più frequentemente ci si rivolge,la cooperativa offre una serie di vantaggi a mio avviso fino ad oggi non adeguatamente considerati.
Il primo che consente la responsabilità limitata dei soci senza necessità di dotarsi di un capitale (o patrimonio che dir si voglia) minimo obbligatorio per legge come invece accade negli altri casi.
Per sua natura, senza necessità, quindi di dover adottare statuti particolari (come accade per le srl sportive), ha le regole compatibili con l’applicazione delle agevolazioni fiscali previste dal combinato disposto di cui agli articoli 148 Tuir e 4 D.P.R. 633/72; in tal senso, ha la possibilità di ingresso (o di uscita) dei soci con la facilità delle associazioni e senza gli obblighi di pubblicità previsti invece per le società di capitali.
Ai “noti” vantaggi fiscali previsti per tutte le altre associazioni e società sportive dilettantistiche unisce la possibilità di ricorrere ai finanziamenti agevolati previsti per la cooperazione e gode, in misura variabile, della detassazione degli utili prodotti. Pertanto, ad esempio, in presenza di ricavi commerciali superiori ai 250.000 euro e, pertanto, fuori dalla legge 398/91, il carico fiscale appare ridotto rispetto a qualsiasi altra società di capitali.
Probabilmente vale la pena farci un pensierino.
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15/03/2016 di Guido Martinelli
Si parla spesso di agevolazioni fiscali per lo “sport dilettantistico”. Mi chiedo se, quando usiamo termini come questo o come “volontariato sportivo”, intendiamo tutti la stessa cosa.
Potrà apparire strano ma nella legislazione domestica non esiste una definizione di sport. In assenza di una definizione legislativa proviamo a vedere, come si fa abitualmente in casi del genere, cosa dicono i dizionari della lingua italiana: “l’insieme degli esercizi fisici che si praticano, in gruppo o individualmente, per mantenere in efficienza il corpo”. Ma se così fosse perchè ritroviamo tra le discipline “sportive” associate riconosciute dal Coni il bridge, la dama e gli scacchi che, a prova di smentita, non prevedono movimenti tesi a conservare la funzionalità del nostro corpo?
Quindi primo problema: è evidente che non esiste una definizione univoca di sport. Ma se questo è vero, quando una legge parla di sport a cosa si riferisce? Qualcuno, più attento, potrebbe dirmi che è sport ciò che è riconosciuto come tale dal Coni. Anche questa è solo una mezza verità. Noi abbiamo molte attività (yoga, giochi elettronici, poker sportivo, freccette, fresbee, attività olistiche, zumba, pilates, eccetera) che non hanno una propria federazione sportiva o disciplina sportiva associata (quindi non esiste una delibera Coni di riconoscimento della specialità) a livello nazionale o internazionale, ma vengono normalmente praticate da associazioni regolarmente affiliate a enti di promozione sportiva riconosciuti. Può essere ritenuto questo una sorta di riconoscimento indiretto? Probabilmente sì. Ma stante l’effetto dichiarativo e non costitutivo legato all’iscrizione al registro Coni, la mancanza di una specifica legislativa potrebbe portare a possibili contenziosi con esito incerto.
Se manca la definizione di sport, a maggior ragione è assente il concetto di “sport dilettantistico”. È chiaro che questo termine si contrappone a sport professionistico. Ma proprio per questo dovrebbe essere quello fatto “per diletto”. Ma così non è in quanto è dato notorio che la differenza esiste solo sotto il profilo giuridico (si applica o non applica la legge 91/81) non economico. Sono dilettanti gli atleti di vertice di discipline come iltennis, lo sci, la pallavolo, il rugby, l’atletica; lo sono i loro tecnici e i loro dirigenti.
Addirittura abbiamo avuto discipline sportive come il ciclismo, il pugilato e, in parte, la pallacanestro che hanno fatto “marcia indietro” facendo rientrare nel dilettantismo attività fino a quel tempo considerate professionistiche.
Ma andiamo avanti. Tutti noi che ci occupiamo di sport ripetiamo, come un mantra, che la vera forza del mondo sportivo è il “volontariato“. Ma, anche qui, manca l’intesa su chi siano i c.d. volontari. Solo quelli che prestano a titolo esclusivamente gratuito la propria attività in favore di sodalizi sportivi o anche quelli che percepiscono i compensi previsti (e defiscalizzati) per le attività sportive dilettantistiche? Perchè, ad esempio, l’ISTAT li ha uniti. E, secondo me, mettere insieme chi non percepisce nulla (e spesso ne mette dei propri) con chi prende 620 euro netti al mese (un dodicesimo di 7.500 euro) – anche al limite per insegnare un’ora alla settimana aerobica – fa una bella differenza. Mi piacerebbe avere una statistica di quanti siano stati i soggetti che hanno percepito nel 2015 compensi sportivi defiscalizzati. Credetemi sarebbe un bel numero, tale da far rivedere il concetto di volontariato nello sport se tale definizione si dovesse leggere solo in termini di gratuità.
Finiamo con un’ultima considerazione. Sta avendo molto successo la formula della società a responsabilità limitata sportiva dilettantistica, ma proviamo a fare questo confronto tra una società a responsabilità limitata per come disciplinata dal codice civile e una società a responsabilità limitata sportiva che voglia godere di tutte le agevolazioni fiscali.
SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA |
SOCIETÀ SPORTIVA A RESPONSABILITA’ LIMITATA |
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Scopo di lucro
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Assenza di scopo di lucro |
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Voto in proporzione alle quote sottoscritte
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Voto per testa |
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Cedibilità delle quote per atto tra vivi
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Incedibilità delle quote per atto tra vivi |
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Libera destinazione dei beni in caso di scioglimento
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Destinazione obbligatoria dei beni in caso di scioglimento |
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Libera scelta degli amministratori
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Non possono essere amministratori coloro che siano colpiti da sanzioni disciplinari dell’ordinamento sportivo o che lo siano già in altri sodalizi sportivi aderenti alla medesima federazione |
Non mi sembra proprio che con lo stesso termine, società a responsabilità limitata, si indichi la stessa cosa.
Ne deriva che fino a quando non ci “mettiamo d’accordo” sul significato da dare a questi termini, sarà difficile arrivare a quella legge quadro sullo sport che, comunque, alla luce, forse, anche di quanto sopra evidenziato, appare sempre più urgente.
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01/03/2016 di Guido Martinelli
Un piccolo gruppo di maestri di tennis venne da me perché avevano trovato in affitto un circolo tennis privato e volevano prenderlo in gestione per poterci lavorare organizzando all’interno corsi e lezioni private di tennis. Mi chiesero cosa costituire per poter fare questa operazioni. Suggerii loro una cooperativa di produzione e lavoro visto che avrebbero operato tutti all’interno a tempo pieno e che quella sarebbe stata, per ognuno di loro, la loro attività principale. Non li rividi più e dopo qualche settimana, incontrato casualmente, uno di loro mi riferì che erano stati da un altro consulente che aveva “sconsigliato” la scelta della cooperativa e li aveva convinti ad optare per una società a responsabilità limita sportiva dilettantistica senza scopo di lucro che avevano, con loro grande soddisfazione, immediatamente costituito.
Mi spiegò che, tanto, tutti gli utili li avrebbero divisi come compenso sportivo. Questi non avrebbero, anche nella migliore delle loro ipotesi di gestione, superato, per ognuno di loro, di oltre il 20% i compensi previsti dai contratti collettivi di lavoro sullo sport, ai sensi di quanto previsto dall’art. 10 del D.Lgs. 460/97 e, pertanto, non avrebbero rischiato l’accusa di lucro indiretto, e, contrariamente a quanto sarebbe accaduto nella cooperativa, detti compensi non sarebbero rientrati nella base imponibile ai fini dell’Irap (art. 90 legge 289/02).
Gli chiesi come sarebbero stati inquadrate le altre persone che lavoravano nell’impianto(custodia, pulizie, bar, ecc.). Mi disse che anche da questo punto la soluzione della sportiva era molto più conveniente di quella che avevo proposto io. Infatti il decreto legislativo 81/15, entrato in vigore il primo gennaio di quest’anno, ha previsto che il limite dei compensi che possono essere riconosciuti per le prestazioni accessorie è pari ad euro 7.000 salvo che: “nei confronti dei committenti imprenditori o professionisti, le attività lavorative possono essere svolte a favore di ciascun singolo committente per compensi non superiori a 2.000 euro …”. Si poneva il problema di quale fosse l’ampiezza del concetto di imprenditore introdotto dalla norma al fine di valutare se, nell’ambito dello sport, il limite delle prestazioni accessorie si ponesse a settemila o a duemila euro annui. Anche qui,ponendo un ulteriore discrimine a sfavore di chi gestisce i centri in forma imprenditoriale, il messaggio Inps 02.02.2016 n. 8628 ha chiarito che: “è possibile individuare una serie di soggetti che, pur operando con partita Iva e/o codice fiscale numerico non sono da considerare imprenditori e, dunque, non sono soggetti alle limitazioni suddette. A titolo non esaustivo si indicano i seguenti soggetti: … Associazioni e società sportive dilettantistiche”.
Pertanto, se avessimo fatto la cooperativa ci saremmo dovuti limitare a duemila euro l’anno, risolvendo così solo parzialmente il problema, mentre il limite per i sodalizi riconosciuti ai fini sportivi dal Coni sarà comunque sempre, per le prestazioni accessorie di euro settemila.
Provai ad insistere: ma non avete paura dell’ispettorato del lavoro? I compensi sportivi, privi di aggravio previdenziale e assicurativo, sono riservati ai dilettanti, voi non lo siete?
Mi risposero: probabilmente non hai letto la circolare del febbraio 2014 del Ministero del lavoro che chiarisce che i compensi sportivi costituiscono un’area di prestazione lavorativa nell’ambito della quale ad oggi non viene previsto aggravio previdenziale e assicurativo. Inoltre, con l’interpello n. 6/2016 del 27 gennaio 2016 il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha preso posizione sull’ambito di applicazione dell’art. 2 comma 2 lett. d) del D.Lgs. n. 81/2015.
Pertanto, per i compensi sportivi che non ricadano in una prestazione di lavoro subordinato (e i miei amici maestri si consideravano tutti “pari grado”), non troveranno applicazione le norme di lavoro subordinato previste per le prestazioni etero organizzate quanto a tempi e luoghi di lavoro, presunzione che, invece, ci sarebbe stata se avessero costituito la cooperativa di produzione e lavoro da me suggerita. A sostegno di tale ipotesi, oltre ai documenti di prassi amministrativa già ricordati e la sentenza della Corte d’Appello di Firenze citata dal Ministero nell’interpello in esame, si possono aggiungere le decisioni della Corte d’Appello di Milano Sez. lav. n. 1172/2014 e la successiva decisione del Tribunale dello stesso foro (Trib. Milano sez. lavoro 30.11.2015 – “Nel caso in esame, infatti, la norma concerne i compensi sportivi erogati dalle associazioni e società sportive dilettantistiche che il vigente ordinamento assoggetta ad un regime agevolato derivante dalla tradizionale distinzione tra attività sportiva professionistica, nella quale è riconosciuta una prestazione di lavoro, e attività sportiva dilettantistica”) e quella analoga del Trib. di Modena, sent. 2276 del 09.12.2015.
E, hanno proseguito, senza dimenticare la riduzione delle accise sul gas metano e il risparmio Iva facendo risultare l’attività riservata ai tesserati dell’ente di promozione sportiva affiliata.
Pertanto, conclusero, grazie al consiglio del tuo collega, risparmiamo un sacco di soldi di imposte e i nostri guadagni ne godono.
Risposi che, nonostante l’evidenza dei fatti, ritenevo di non aver sbagliato nel dare loro il mio consiglio originale.
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15/02/2016 di Guido Martinelli
L’Inps con proprio messaggio del 2 febbraio 2016 n. 8628, ha segnalato che le “associazioni senza scopo di lucro, … associazioni di volontariato, … associazioni e società sportive dilettantistiche” non rientrano nel concetto di imprenditore, al fine della applicabilità del limite dei 2.000 euro, per l’utilizzo dei voucher per le prestazioni accessorie.
Pertanto nei confronti di dette associazioni e società varrà il limite dei settemila euro introdotto dal D.Lgs. 81/2015.
Leggi tutto25/01/2016 di Guido Martinelli
La figura essenziale per la gestione di una piscina è quella dell’assistente bagnante. Due recenti atti parlamentari ci inducono a questa riflessione.
Il primo è l’atto di sindacato ispettivo n. 3 – 02371 (del 16.11.2015 – seduta n. 537) di alcuni Senatori della Repubblica nei confronti del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, i quali, dopo aver ritenuto che gli “appartenenti a tale categoria non possono che essere considerati quali lavoratori dipendenti a tutti gli effetti” e aver distinto il loro lavoro da quello dei c.d. bagnini o operatori balneari da un lato e degli istruttori di nuoto dall’altro, chiedono al Ministro che: “venga riconosciuto alla figura dell’assistente bagnanti un inquadramento contrattuale più consono e coerente al possesso di una qualifica abilitante, all’obbligo di garantire la presenza in orari definiti ed al riconoscimento di un compenso fisso e predeterminato”.
Il secondo è il parere positivo allo schema di decreto legislativo recante il recepimento della direttiva 2013/55/UE che assegna al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti la competenza per il riconoscimento della professione di assistente bagnante.
Proviamo a delineare il quadro normativo di riferimento ad oggi esistente; la prima norma che prende in considerazione l’obbligatorietà della presenza di tale figura in una piscina pubblica è la Circolare del Ministero dell’Interno n. 16 del 15.02.1951, successivamente modificata dal Decreto Ministeriale del 1989 sulla Sicurezza negli Impianti Sportivi, che all’art. 110 recita quanto segue:
“Il servizio di salvataggio deve essere disimpegnato da almeno due bagnini all’uopo abilitati dalla sezione salvamento della Federazione italiana nuoto ovvero muniti di brevetti di idoneità per i salvataggi a mare rilasciati da società autorizzata dal Ministero della marina mercantile” (così sostituito da D.M. 25-8-1989).
La prima modifica fu introdotta dal Decreto del Ministero della Sanità del 11.07.1991. Questo articolo introduceva la necessità della sorveglianza con un numero di assistenti ai bagnanti in relazione alle misure della vasca e non imponeva la necessità della presenza degli stessi quando la piscina non era aperta al nuoto libero, sempreché gli istruttori fossero abilitati alle operazioni di salvataggio e primo soccorso e fossero almeno uno per vasche di superficie inferiore ai 100 mq, almeno due per superfici fino a 600 mq, uno in più ogni ulteriori 600 mq di superficie.
La disciplina attuale è recata dal Decreto del Ministero dell’Interno del 18.03.1996 “Norme di sicurezza per la costruzione e l’esercizio degli impianti sportivi”, che all’art. 14 recita:
“Il servizio di salvataggio deve essere disimpegnato da un assistente bagnante quando il numero di persone contemporaneamente presenti nello spazio di attività è superiore alle 20 unità o in vasche con specchi d’acqua di superficie superiore a 50 mq. Detto servizio deve essere disimpegnato da almeno due assistenti bagnanti per vasche con specchi d’acqua di superficie superiore a 400 mq. Nel caso di vasche adiacenti e ben visibili tra loro il numero degli assistenti bagnanti va calcolato sommando le superfici delle vasche ed applicando successivamente il rapporto assistenti bagnanti/superfici d’acqua in ragione di 1 ogni 500 mq. Per vasche oltre 1.000 mq dovrà essere aggiunto un assistente bagnante ogni 500 mq. Per assistente bagnante si intende una persona addetta al servizio di salvataggio e primo soccorso abilitata dalla sezione salvamento della Federazione Italiana Nuoto ovvero munita di brevetto di idoneità per i salvataggi in mare rilasciato da società autorizzata dal Ministero dei Trasporti e della Navigazione. Durante l’addestramento di nuotatori il servizio di assistenza agli stessi può essere svolto dall’istruttore o allenatore in possesso di detta abilitazione della Federazione Italiana Nuoto”.
Alla luce della riconosciuta qualificazione professionale sotto il profilo normativo, l’obbligatorietà della presenza di questa figura in ogni struttura di balneazione aperta al pubblico (in quanto, a prescindere dalle dimensioni, non appare preventivabile il numero di persone che accederanno all’impianto) e, pertanto, l’obbligo di garantire la propria presenza in orari definiti, il riconoscimento di un compenso fisso predeterminato non legato alla concreta attività svolta, la distinzione operata rispetto alla figura dell’istruttore o dell’allenatore, la competenza acquisita sulla professione dal Ministero delle infrastrutture porta a ritenere che siano tutti elementi non riconducibili ad un rapporto di prestazione autonoma non professionale avente per oggetto l’esercizio diretto di attività sportiva dilettantistica.
In presenza, poi, della previsione del secondo comma dell’art. 2 del decreto legislativo 81/2015 trattandosi sempre di: “collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro” non vi è ombra di dubbio che alla prestazione di lavoro dell’assistente bagnante si debba applicare la disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
Leggi tutto02/12/2015 di Guido Martinelli
L’avvio della stagione invernale ci impone alcune considerazioni sul rapporto che si instaura tra gli sci club e i maestri di sci.
Costoro sono gli unici tecnici sportivi ad avere una legge dello Stato che disciplina (L. 81/91) la “professione di maestro di sci” considerando tale “chi insegna professionalmente … le tecniche sciistiche in tutte le loro specializzazioni” e subordinando l’esercizio “alla iscrizione in appositi albi professionali regionali”.
Ciò promesso va aggiunto che lo sci, come disciplina sportiva è a carattere dilettantistico e che gli sci club, di conseguenza, affiliati alla Federazione Italiana sport invernali, sono associazioni sportive dilettantistiche.
Si pone il problema, quindi, se sia applicabile, ai rapporti tra detti sodalizi e i maestri di sci, la disciplina sui compensi sportivi di cui all’art. 67 primo comma lett. m) del Tuir.
Fino ad ora sia la direzione generale dell’Agenzia delle entrate, con le sue circolari, sia i numerosi commentatori che hanno affrontato la nuova problematica fiscale dei compensi per esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche si sono astenuti dall’entrare nel merito di tale problematica. Gli unici due precedenti ufficiali applicabili al caso di specie li ricaviamo dalle sedi regionali dell’Amministrazione finanziaria. Il primo intervento ufficiale proviene da un pronunciamento della Agenzia regionale delle Entrate del Piemonte (Nota del 19 settembre 2001 prot. 01/67344, inedita). Rispondendo ad un quesito formulato dal Collegio regionale dei maestri di sci sulla possibilità per gli sci club di riservare ai maestri che svolgono attività di allenatore in loro favore il trattamento agevolato di cui all’art. 81/83 del Tuir (oggi 67/69), l’Ufficio fiscalità Generale testualmente ritiene che: “La prestazione che il maestro di sci effettua nei confronti degli iscritti allo sci club è attività che rientra nell’esercizio della professione, ciò esclude che il reddito possa rientrare tra i redditi diversi elencati nell’art. 81 comma 1 lett. m). Detto articolo, infatti, dispone che non costituiscono redditi diversi quelli conseguiti nell’esercizio di arti o professioni. Talchè, vista la non inclusione dei redditi prodotti dai maestri di sci nella previsione dei redditi diversi di cui all’art. 81 del dpr. 917/86, non risulta applicabile alla fattispecie prospettata la disciplina dell’art. 83, stesso dpr.”. Tale tesi è stata successivamente confermata dall’analogo ufficio della Direzione regionale della Lombardia dell’Agenzia delle entrate, con nota 07.01.2002 prot. 771 (inedita), in risposta ad un’istanza di interpello. Anche in questo caso l’ufficio ritiene che: “…si evince che occorre preliminarmente verificare se l’attività di maestro di sci, ancorché esercitata in forma associata, costituisca attività di lavoro autonomo. Sullo specifico argomento, anche l’Inail, con circolare n. 53 del 12 luglio 2000, con riferimento all’obbligo assicurativo per i maestri di sci ha ribadito che essi www.ecnews.it Edizione di mercoledì 2 dicembre 2015 sono considerati veri e propri lavoratori autonomi e…sotto il profilo fiscale con regolare posizione e iscrizione all’Iva. Tale assunto trova conferma anche nell’obbligo che hanno i maestri di sci di iscriversi in apposito albo. Chiarito, pertanto, che il maestro di sci esercita esclusivamente attività di lavoro autonomo, questa direzione Regionale ritiene che l’attività di allenatore rientri tra le prestazioni professionali esercitate abitualmente dal medesimo, con conseguente esclusione dei relativi compensi dall’agevolazione in commento”. Da dette posizione se ne ricava, per tornare alla formulazione del quesito, che, secondo l’Amministrazione finanziaria, le prestazioni di soggetti abilitati allo svolgimento dell’attività di maestro di sci non rientrano tra quelle di attività sportiva dilettantistica, previste e disciplinate dall’art. 67 primo comma lett. m del Tuir.
Si ritiene di non poter condividere tale posizione in senso assoluto.
Infatti non vi è dubbio che il maestro di sci che svolga tale attività in favore anche di terzi sia un soggetto che svolge arti e professioni e, pertanto, anche ove un suo cliente sia uno sci club iscritto al registro Coni delle società e associazioni sportive dilettantistiche sarà tenuto ad emettere regolare fattura con Iva.
Diverso se trattasi di maestro che svolgesse solo attività di “allenatore” per uno sci club. In questo caso verrebbe meno il presupposto dell’esercizio professionale, prevarrebbe lo svolgimento solo di un’attività sportiva dilettantistica e, pertanto, sulla base di quanto indicato dal Ministero del lavoro nella sua nota 4036 del 21 febbraio 2014, si ricadrebbe nella disciplina sui compensi sportivi dilettantistici qualificati come redditi diversi.
Leggi tutto15/06/2015 di Guido Martinelli
Lo scorso 11 giugno il Consiglio dei Ministri ha approvato, in via definitiva, il decreto applicativo del Jobs act sulle revisione della disciplina organica dei contratti di lavoro. Il decreto, dunque, attendo solo l’approdo in Gazzetta Ufficiale e diverrà pienamente operativo a partire dal giorno successivo alla sua pubblicazione.
L’esame, a prima vista, sembra non tenere conto delle realtà che operano nel terzo settore e della gestione delle risorse umane che prestano nei loro confronti la loro attività con forme, spesso, di lavoro “semigratuito”, per le quali il ricorso forzato al lavoro subordinato, ribadito quale “forma comune di rapporto di lavoro” appare scelta non solo antieconomica ma, spesso, non corrispondente alle effettive modalità di svolgimento della prestazione.
La scomparsa della possibilità di stipulare accordi di associazioni in partecipazione con apporto di solo lavoro (di grande utilizzo nella gestione dei posti di ristoro all’interno dei circoli ricreativi), il venir meno dei contratti a progetto e la previsione che si applichi la disciplina del rapporto di lavoro subordinato (e mi piacerebbe capire cosa significa: diventano subordinati ex lege o rimangono lavoratori autonomi a cui si applica la disciplina dei dipendenti?) per quelle collaborazioni “che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro” (art. 2 co. 1) rende estremamente difficoltoso inquadrare correttamente tutte quelle attività svolte da animatori culturali, componenti di cori, bande, filodrammatiche (già esclusi dal campo di applicazione dell’art. 67 primo comma lett. m), per loro riservato esclusivamente ai direttori e ai collaboratori tecnici) docenti di corsi ai più vari livelli che per poche ore alla settimana prestano la loro attività in favore di enti non profit.
È pur vero che l’unica soluzione che appare potenzialmente applicabile, quella dellavoro accessorio, ha visto (art. 48 del decreto in esame) incrementare il suo massimale a 7.000 euro l’anno; ma rimane a 2.000 euro il limite per i “committenti imprenditori”. Una associazione che gestisce una scuola musicale aperta al pubblico lo è? Forse sì ma come lo si potrà giudicare a priori al fine di poter applicare correttamente la norma? E se lo fosse il limite dei duemila euro è insufficiente a riconoscere un adeguato ristoro ad un docente, magari di Conservatorio, che si presta a collaborare con l’associazione (ammesso, poi, che in questo caso si possa parlare di prestazione accessoria).
Il secondo comma dell’art. 2 contiene le 4 deroghe previste ai casi in cui, alle collaborazioni, si applichi la disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
La prima fa riferimento ad accordi collettivi “nazionali” che evidentemente, appaiono difficilmente stipulabili nel breve periodo; la seconda alle prestazioni intellettuali per le quali sia necessaria “l’iscrizione in appositi albi professionali”. Qui diventa necessario che il Ministero faccia chiarezza su cosa si intenda per albo: i maestri di sci che hanno un albo riconosciuto con legge dello Stato (l. 81/91) vi rientrano? Gli istruttori sportivi iscritti al registro della propria Federazione sportiva? Il terzo caso si riferisce ai componenti degli organi, collegi, commissioni, fattispecie diverse da quelle in esame e, l’ultima, alle: “collaborazioni rese ai fini istituzionali in favore delle società e associazioni sportive dilettantistiche … come individuati e disciplinati dall’articolo 90 della legge 27 dicembre 2002 n. 289”.
Evidenziato che l’utilizzo del termine collaborazioni come prestazioni a cui non si applica “la disciplina del rapporto di lavoro subordinato” sembra far emergere una scelta del legislatore contraria a quella dello sport professionistico: in quest’ultimo presunzione di subordinazione, in quello dilettantistico di autonomia e che, apparentemente in maniera inspiegabile non sono ricomprese anche le collaborazioni in favore delle Federazioni e degli enti di promozione sportiva, resta insoluto il dilemma principale.
La locuzione “individuati e disciplinati”, a prescindere dalla concordanza lessicale, si riferisce alle “collaborazioni” o alle società e associazioni sportive?
Se ci convincessimo della prima tesi, essendo le collaborazioni previste dall’art. 90 quelle disciplinate ai fini fiscali dall’art. 67 primo comma lett. m) ci troveremmo di fronte alla scelta del legislatore, finalmente anche sotto il profilo lavoristico, di un’area di lavoro sportivo dilettantistico “atipica” in cui sono previste rilevanti agevolazioni sotto il profilo fiscale e soprattutto previdenziale (con azzeramento di quest’ultimo e buona pace dell’art. 38 della Costituzione). Ove, invece, la concordanza fosse con società e associazioni sportive rimane il dubbio del come qualificare queste collaborazioni ai fini fiscali e, conseguentemente, previdenziali: tra quelle di cui all’art. 50 primo comma lett. c bis del Tuir (redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente) o a quelli di cui all’art. 67 primo comma lett. m) (redditi diversi).
Urge un chiarimento.
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11/05/2015 di Guido Martinelli
Accade spesso che molte realtà territoriali su base associativa si richiamino a strutture e organizzazioni a carattere nazionale. Uno dei temi di maggiore interesse diventa, appunto, quello di capire quando un comitato territoriale di un ente diventi un soggetto di imposta autonomo rispetto all’associazione nazionale di cui fa parte. Il problema si pone, con particolare evidenza, a livello di Federazioni sportive, enti di promozione sportiva, associazioni nazionali di promozione sociale.
La circolare n. 59/2007 della Agenzia delle Entrate offre lo spunto per delineare la disciplina in materia.
Il fulcro della teoria della “soggettività tributaria” – riferita tanto a soggetti profit quanto a soggetti non profit – gravita attorno al quesito se i soggetti passivi d’imposta si identifichino con i soggetti di diritto privato, ovvero se sussista una “soggettività tributaria” più estesa rispetto alla soggettività privatistica.
Gli enti non commerciali, specialmente se di dimensioni non ragguardevoli, rifuggono spesso, in sede di costituzione, dalle categorie ordinariamente apprestate dal legislatore per l’esercizio in forma associata dell’attività d’impresa.
Una questione di rilievo si incentra sulla legittimità dell’imputazione dell’IVA in riferimento alla tipologia di enti che interessano tali note. Il problema è se sia possibile sostenere che ci possano essere diverse soggettività tributarie ai fini delle imposte sui redditi e di quella sul valore aggiunto.
Ebbene, se per essere potenzialmente soggetti ad Iva appare necessario svolgere attività di impresa, significa che la soggettività ai fini di tale imposta deve coincidere necessariamente con quella di diritto civile.
Il documento di prassi sopra citato chiarisce i requisiti che il soggetto tributario deve possedere, per poter effettivamente considerarsi autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive (attive e passive) nel frangente specifico – o speciale – della disciplina fiscale degli enti non profit.
Il concetto di autonomia, pertanto, viene ricostruito, dall’Amministrazione, per così dire “dall’interno”, scisso com’è in distinti “sotto – concetti” [autonomia patrimoniale, gestionale ed amministrativa], i cui corollari, con i relativi canoni applicativi, necessitano di essere rispettati dall’articolazione periferica della ONLUS interessata a qualificarsi come autonomo centro di imputazione di diritti e doveri fiscali dalla cui richiesta di parere è sorto il documento di prassi.
In un’ipotetica sede d’accertamento, infatti, il grado di indipendenza che simile soggetto dovrà dimostrare di possedere, rispetto alla struttura della ONLUS operante a livello nazionale, si estrinsecherà anche – e soprattutto – sul frangente della gestione interna ed esterna della relativa attività sociale.
Ciò che si sostanzia, in primo luogo, con la capacità - in capo al soggetto dislocato - di autodeterminarsi in assenza di specifici vincoli intercorrenti fra le proprie strutture decisionali e quelle dell’ente a sua volta operante a livello nazionale.
Vincoli che - rammenta la circolare n. 59 cit. – possono pur sempre essere presenti, ma, ai fini dell’autonoma iscrizione nell’Anagrafe delle ONLUS, mai potrebbero raggiungere un grado di invasività tale da impedire al soggetto “periferico” di formare – e conseguentemente esternare – una volontà propria, distinta cioè da quella degli organi operanti a livello centrale, e, se del caso, persino discordante rispetto a quest’ultima.
L’organizzazione “periferica”, pertanto, dovrà essere in grado di “autorganizzarsi secondo una propria disciplina”, di godere e fruire di “un patrimonio proprio e separato”, “idoneo [a sua volta] a costituire il fondo comune dell’associazione locale” e tale da comportare la redazione di un “proprio bilancio o rendiconto”, comunque diverso e non collegato a quello apprestato dalla relativa organizzazione nazionale.
Si è proposta, poco fa, una tesi per cui gli enti non commerciali dotati di mera capacità tributaria ma non di soggettività civilistica dovrebbero, secondo logica, essere posti fuori campo IVA.
Un punto a favore della bontà di questa opinione potrebbe rinvenirsi proprio nella circolare in esame.
Il testo di prassi, in effetti, tratteggia dall’interno il requisito dell’autonoma soggettività tributaria, ritenendolo – come già detto – necessario e sufficiente ai fini della diretta imposizione fiscale in capo all’articolazione periferica di una ONLUS di dimensioni nazionali.
Sostenere – come fa appunto l’Agenzia – che l’autonomia tributaria si acquisisce, in capo a tali soggetti, solo a fronte di una dimostrata autonomia patrimoniale, economica, amministrativa e gestionale, altro non pare se non una tacita ricognizione della posizione – oggi non più maggioritaria – che tende ad uniformare i concetti di autonoma soggettività ai fini fiscali ed ai fini civilistici in un’unica, generica, nozione di soggettività.
Va da sé che un soggetto perfettamente autodeterminato – dotato peraltro di un proprio patrimonio, gestito in autonomia – non possa non essere ascritto nel novero delle persone dotate di propria soggettività, quanto meno nei fatti (associazione di fatto, società di fatto).
Soggetti dotati di tale grado di indipendenza ben possono esercitare abitualmente un’attività d’impresa, e, quindi, realizzare operazioni imponibili a fini IVA.
Diversamente, in presenza cioè di un mero aggregato di beni e persone – sfornito di personalità giuridica -, sarebbe impossibile sostenere che tale “organizzazione” – autonoma solo ai fini fiscali – possa risultare soggetto passivo IVA. Quasi a dire: è necessario che il soggetto fiscalmente autonomo sia anche tale dal punto di vista del diritto comune. Solo così, infatti, sarà possibile affermare che l’operato dell’ente in questione realizzi il presupposto soggettivo relativo all’imputazione dell’imposta sul valore aggiunto.
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