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L’opinione

L’attività “decommercializzata”degli enti non commerciali

29/04/2015 di Guido Martinelli

Il comma 3 dell’art. 143 del TUIR disciplina due fattispecie di attività i cui proventi non concorrono alla formazione del reddito imponibile degli enti non commerciali.

 

In particolare, ai sensi dell’art. 143, comma 3 lett. a) del TUIR: non concorrono in ogni caso alla formazione del reddito degli enti non commerciali, sono esclusi dall’imposta sul valore aggiunto e sono esenti da ogni altro tributo “i fondi pervenuti ai predetti enti a seguito di raccolte pubbliche effettuate occasionalmente, anche mediante offerte di beni di modico valore o di servizi ai sovventori, in concomitanza di celebrazioni, ricorrenze o campagne di sensibilizzazione“.

 

La disposizione in esame stabilisce che per le citate attività resta fermo il regime di esclusione dall’IVA. Si tratta infatti di raccolte occasionali e, come tali, non soggette al tributo specifico. Per espressa previsione normativa, inoltre, esse sono esenti da ogni altro tributo.

 

Per queste raccolte va redatto un separato rendiconto entro 4 mesi dalla chiusura dell’esercizio, accompagnato da una relazione illustrativa dal quale far risultare, per esigenze di chiarezza e trasparenza, le entrate e le spese relative a ciascuna manifestazione. Il documento e la relazione devono essere redatti indipendentemente dall’obbligo di redazione del rendiconto annuale (comma 2, dell’art. 20 del D.P.R. n. 600/1973).

 

L’obbligo di predisporre il rendiconto delle entrate e delle spese di ogni raccolta è indipendente da qualsiasi eventuale ulteriore vincolo contabile a carico dell’ente non commerciale (a prescindere, pertanto, dal fatto che questo svolga o meno attività commerciale). Il rendiconto deve, quindi, essere predisposto anche dall’ente non commerciale che svolga esclusivamente attività istituzionale.

 

Il rendiconto non deve essere allegato alla dichiarazione dei redditi né va trasmesso in altro modo all’Amministrazione finanziaria o ad altri soggetti. Esso però deve essere conservato, agli effetti fiscali, fino a quando non sia divenuto definitivo l’accertamento relativo al periodo d’imposta cui si riferisce e, quindi, in caso di controversia, anche oltre il termine decennale previsto dall’art. 2220 c.c..

 

Nella Circolare n. 59/E del 31 ottobre 2007, l’Agenzia delle Entrate ha richiamato la necessità che la raccolta di fondi segua regole ben determinate. In primo luogo, è necessario “individuare e quantificare un rapporto fra i fondi raccolti e la loro destinazione, prevedendo che i costi totali, sia amministrativi sia per l’attività di raccolta fondi, debbano essere contenuti entro limiti ragionevoli e tali da assicurare che, dedotti tali costi, residui, comunque, una certa quota di fondi da destinare ai progetti e alle attività per cui la stessa campagna è stata attivata. A tale proposito, si ritiene che i fondi raccolti debbano essere destinati per la maggior parte del loro ammontare a finanziare i progetti e l’attività per cui la raccolta fondi è stata attivata. I fondi raccolti, in sostanza, non devono essere utilizzati dall’ente per autofinanziarsi a scapito delle finalità solidaristiche che il legislatore fiscale ha inteso incentivare”.

 

Per le associazioni sportive dilettantistiche che si avvalgono dell’opzione di cui all’art. 1 della Legge n. 398/91, secondo quanto prevede il comma 2 dell’art. 25 della L.  n. 133/99,non concorrono a formare il reddito imponibile, per un numero di eventi complessivamente non superiore a due per anno e per un importo non superiore al limite annuo complessivo fissato con decreto interministeriale (attualmente, il limite è pari a 51.645,67 euro):

a) i proventi realizzati dalle associazioni nello svolgimento di attività commerciali connesse agli scopi istituzionali;

b) i proventi realizzati per il tramite della raccolta pubblica di fondi effettuata in conformità all’art. 143, comma 3, lett. a) del TUIR.

 

La seconda fattispecie è disciplinata dal comma 3, lett. b), dell’art. 143 del TUIR, secondo il quale non concorrono in ogni caso alla formazione del reddito degli enti non commerciali i contributi corrisposti da amministrazioni pubbliche ai predetti enti per lo svolgimento convenzionato o in regime di accreditamento di attività aventi finalità sociali esercitate in conformità con i fini istituzionali degli enti stessi.

 

L’agevolazione per i contributi è subordinata alle seguenti condizioni:

  • deve trattarsi di attività aventi finalità sociali;
  • deve sussistere una convenzione o un accreditamento con l’ente pubblico che ne certifichi l’interesse;
  • le attività devono essere svolte in conformità alle finalità istituzionali dell’ente.

 

Nella Circolare ministeriale n. 124/E/1998 è stato precisato che le finalità sociali devono ricomprendersi fra le finalità tipiche dell’ente.

 

L’agevolazione si applica alle singole attività convenzionate o svolte in regime di accreditamento; ne consegue che l’ente non commerciale può fruire del beneficio della non imponibilità anche limitatamente ad una o più delle attività svolte in convenzione o accreditamento, qualora queste rispettino i requisiti richiesti (finalità sociale e conformità ai fini istituzionali).

 

La disposizione si rende applicabile anche ai contributi di natura corrispettiva che, a differenza di quelli a fondo perduto, rappresentano comunque entrate di natura commerciale, anche se detassate: gli stessi configurano, quindi, operazioni soggette all’Iva (anche se spesso in regime di esenzione) ed ai connessi adempimenti (fatturazione, registrazione ecc.).

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Dal Jobs Act nessuna chiarezza per lo sport dilettantistico

17/03/2015 di Guido Martinelli

Se qualcuno avesse mai sperato che i decreti legislativi in corso di approvazione in attuazione della L. n. 183/2014 (il tanto nominato Jobs act) potessero finalmente mettere un punto finale alla diatriba sull’assoggettamento o meno a contribuzione previdenziale dei compensi erogati per prestazioni sportive dilettantistiche, sarà rimasto, come chi vi scrive, profondamente deluso del contenuto dei testi, approvati dal consiglio dei Ministri nella sua seduta del 20.02.2015, in attesa del previsto parere delle commissioni parlamentari competenti.

 

La vicenda, per come si interseca la legislazione, la giurisprudenza e la prassi amministrativa sta diventando quasi comica se, per chi ne venga coinvolto, non diventi anche drammatica.

 

La strada scelta dal Legislatore sotto il profilo fiscale di collocare tra i redditi diversi i compensi per attività sportive dilettantistiche (art. 67, primo comma, lett. m. Tuir) e quella, d’altro lato, sotto il profilo previdenziale, di ricomprendere i compensi corrisposti agli istruttori sportivi tra quelli soggetti a contribuzione “spettacolo” ha prodotto le due correnti di pensiero che oggi si confrontano. Quella di chi ritiene che una prestazione lavorativa, se è tale, in armonia con il disposto dell’art. 38 della Costituzione, non possa non comportare una tutela previdenziale e assicurativa (e conseguente contribuzione da versare), vedendo sul punto precisi e puntuali riferimenti nelle sentenze C. Cass. Sez. Lavoro n. 21245/2014 e Sez. terza n. 31840/2014, e quella di coloro i quali, invece, ritengono che per la specificità dell’attività, il Legislatore abbia prevista una nuova area di attività lavorativa, non soggetta a contribuzione previdenziale (a supporto della quale si citano la Circolare del Ministero del lavoro 21.02.2014; Sent. C.d.A. Milano Sez. lav. n. 1172/2014 e C.d.A. Firenze n. 683/2014).

 

Proviamo a darvi dimostrazione dei due assunti con due sentenze, casualmente decise lo stesso giorno e su due fattispecie analoghe di istruttori di nuoto che operavano per associazioni sportive dilettantistiche:

 

Corte di Appello di Firenze Sent. n. 683/14 del 08.10.2014: “...la finalità perseguita dal legislatore è quella di realizzare un regime di favore a vantaggio delle associazioni sportive dilettantistiche esentando dal pagamento dell’imposta (e della contribuzione)quanto queste corrispondano in forme di rimborsi forfettari o di compensi non solo agli atleti ma anche a tutti coloro che collaborino con mansioni tecniche o anche gestionali, al funzionamento della struttura riconosciuta dal Coni. Vi sottende, ovviamente, la necessità di incentivare questo tipo di attività e di alleggerirne i costi di gestione, sul presupposto della oggettiva valenza della funzione, anche educativa che consegue all’esercizio di attività sportive non professionistiche”.

 

C. Cassazione Civile sez. lavoro Sent. n. 21245 del 08.10.2014: “La causa va quindi definita con l’affermazione del seguente principio di diritto: Gli istruttori di nuoto in quanto esplichino la propria attività in corsi di nuoto svolgentisi in piscine, rientrano tra gli addetti agli impianti sportivi di cui al D.Lgs. cps 16 luglio 1947 n. 708 art. 3 co. 1 n. 21 come sostituito dal d.p.r. 22 luglio 1986 n. 10 indipendentemente dal regime autonomo o subordinato di espletamento della loro prestazione lavorativa con conseguente debenza all’inps dei contributi ssn, di malattia e gescal
Nel primo caso, per i magistrati toscani esiste una sorte di tertium genus oltre il lavoro autonomo e subordinato. La Suprema Corte, invece, non ha dubbi sul loro assoggettamento a contribuzione.

 

Il Legislatore del jobs act non risolve il dilemma. Anzi!

 

La previsione di specifico interesse per il mondo dello sport è contenuta nello schema di decreto legislativo (“Testo organico semplificato delle tipologie contrattuali e revisione della disciplina delle mansioni”).

 

All’art. 47 dello schema di decreto viene previsto che, a far data dal 1° gennaio 2016, ai rapporti di collaborazione personali con contenuto ripetitivo ed etero-organizzati dal datore di lavoro saranno applicate le norme del lavoro subordinato. La norma fa, però, salve alcune tipologie di collaborazioni tra cui “le prestazioni di lavoro rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I. come individuati e disciplinati dall’articolo 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289”.

 

Ma l’art. 90 della L. n.289/2002 disciplina solo le collaborazioni amministrativo – gestionali e non anche le prestazioni sportive (che sono previste solo dall’art. 67 del Tuir) e, soprattutto, non facendo alcun riferimento alla disciplina fiscale, si continua a “non comprendere” la volontà del Legislatore in merito all’inquadramento previdenziale di queste collaborazioni.

 

Si sta correndo il rischio di perdere una buona occasione per fare una disciplina organica del lavoro nello sport.

 

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Il fallimento delle “società sportive”: ASD e SSD a confronto

10/03/2015 di Guido Martinelli

La recente Sentenza n. 16/15 emessa dal Tribunale di Genova Sez. Fallimentare, depositata in cancelleria in data 11.02.2015, costituisce un valido riferimento per approfondirel’impatto delle procedure concorsuali nella vita dei soggetti giuridici che popolano il mondo sportivo, con particolare riguardo al caso in cui lo stato di dissesto ed insolvenza siano irreversibili.

 

Nel caso in esame la domanda è presentata a cura della medesima ricorrente – una Società Sportiva Dilettantistica a Responsabilità Limitata – la quale richiede in proprio il fallimento riconoscendo, in via confessoria, l’obiettivo ed irreversibile stato di insolvenza derivante dalle consistenti perdite e dalla considerevole riduzione dei ricavi registrate nell’ultimo triennio.

 

Il Collegio adito accoglie l’istanza, a seguito di una succinta e condivisibile serie di rilievi. In primo luogo i giudici di merito, richiamandosi al consolidato orientamento della Cassazione sul punto (Cass. Civ. Sez. I n. 8374/00), riconoscono la qualifica di imprenditore commerciale e la conseguente assoggettabilità alla procedura concorsuale in capo ad ogni soggetto che, sostanzialmente, svolga in via esclusiva o prevalente attività di impresa commerciale.

 

La decisione prosegue ricordando un principio della Suprema Corte (C. Cass. Sez. I, 24.03.2014 n. 6835) secondo il quale: Lo scopo di lucro (c.d. lucro soggettivo) non è elemento essenziale per il riconoscimento della qualità di imprenditore commerciale, essendo individuabile l’attività di impresa tutte le volte in cui sussista una obiettiva economicità dell’attività esercitata, intesa quale proporzionalità tra costi e ricavi (c.d. lucro oggettivo)”.

 

Se, da un lato, tale affermazione potrebbe essere discutibile nella misura in cui è idonea ad ampliare indistintamente il novero dei “soggetti fallibili”, dall’altro non si può certo omettere di riconoscere che oggi – a qualsiasi livello – la gestione delle “società sportive”, ASD o SSD che siano, tende ad essere, di fatto, esercizio di attività anche economica, almeno con riferimento all’investimento di tempo, risorse e competenze all’uopo necessarie.

 

In tale scenario, posto che ormai la giurisprudenza è sempre più propensa ad accogliere un’interpretazione estensiva e sostanziale del concetto di “esercizio dell’attività economica”, pare opportuno domandarsi quali possano essere i rimedi pratici per tutelare gli operatori del mondo sportivo dilettantistico, che spesso sono organizzati in strutture troppo “amatoriali”.

 

Rimarcato che, comunque, stiamo parlando di realtà che abbiano i requisiti dimensionali previsti dalla legge fallimentare, si pongono ulteriori interrogativi.

 

Il primo, legato alla natura delle società sportive di capitale. La loro natura di società senza scopo di lucro ha indetto qualche autore, nel passato, ha ritenere che, per contrasto con l’art. 2247 Cod.Civ., queste fossero società di diritto speciale e, come tali, non potessero godere dello schermo della responsabilità limitata. La moderna giurisprudenza è, invece, rivolta a ritenere che siano, a tutti gli effetti, società riconducibili al libro quinto del codice civile e, pertanto, come tali, soggetti dotati di autonomia patrimoniale perfetta.

 

Ciò consente di accantonare, per tali soggetti, la problematica che, invece, si apre per leassociazioni sportive costituite ai sensi degli artt. 36 e segg. Cod.Civ., ovvero per quelleprive di personalità giuridica.

 

Nei loro confronti, ed è questa la domanda che ci si pone, sussistendone ovviamente i requisiti previsti dalla legge, l’eventuale declaratoria di fallimento si estende, in analogia con quanto accade per le società di presone, anche ai singoli soci illimitatamente responsabili o no. E se così fosse, detto fallimento ricadrebbe su tutti i soci indistintamente?

 

Se una prima fase della elaborazione giurisprudenziale aveva portato ad una estensione della declaratoria di fallimento anche ai singoli soci “amministratori”, paragonati ai soci delle società di persone illimitatamente responsabili, successive pronuncie, del tutto condivisibili, hanno portato a limitare la procedura solo all’associazione senza estenderla agli associati.

 

Ciò sul presupposto che, contrariamente a quanto accade nelle società di persone, dove non esiste distinzione tra il patrimonio della società e quello dei singoli soci, nelle associazioni non riconosciute, pur in assenza di autonomia patrimoniale perfetta, secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, esiste comunque un patrimonio della associazione distinto da quello dei singoli associati. Tant’è che il credito del singolo non ha azione nei confronti del patrimonio della associazione.

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La legge 398/91: risorsa o trappola per gli enti non commerciali?

15/01/2015 di Guido Martinelli

La Legge 16.12.1991 n. 398 che consente la determinazione forfettaria del reddito e dell’iva da versare per le associazioni sportive dilettantistiche (campo di azione ampliato, poi, con l’art. 9-bis della Legge n. 66/1992 a tutti gli enti senza scopo di lucro) e l’esonero dalla tenuta di scritture contabili è stata, da subito, accolta con grande favore dal mondo del non profit.

 

Alla rilevanza, non secondaria, della semplificazione amministrativa e dei costi fiscali contenuti, unisce, ad avviso di chi scrive, un vantaggio di assoluto rilievo. Consente di non dover procedere alla distinzione dei costi c.d. “istituzionali” da quelli “commerciali” (unici componenti negativi utilizzabili per abbattere i ricavi imponibili) e conseguente determinazione pro quota di quelli forfettari. Distinzione che, per la sua scarsa possibilità di determinarla oggettivamente, produce di solito rilevanti contestazioni in sede di accertamento.

 

Tale disciplina è stata, negli ultimi mesi, oggetto di nuova attenzione da parte del legislatore.

 

In primis con il c.d. decreto semplificazione (D.Lgs. n. 175/2014. Sul punto vedi anche la Circolare della Agenzia delle entrate n. 31/E/2014) che ha previsto un’unica percentuale di detrazione Iva (50%) sia per i corrispettivi di pubblicità che per quelli di sponsorizzazione (prima al 10%). La novella pone fine a lunghe dispute dottrinarie e giurisprudenziali su cosa debba intendersi per l’una o l’altra fattispecie adottando, tra l’altro, la soluzione più favorevole per il contribuente. Pertanto non si può che accogliere con favore la semplificazione introdotta.

 

Successivamente, nella recente Legge di Stabilità (L. n. 190/2014), elevando da 516,46 a mille euro il limite dell’obbligo di tracciabilità degli incassi e dei pagamenti degli enti (obbligo anch’esso originariamente previsto solo per le sportive e successivamente allargato a tutti gli enti con un discutibile provvedimento di prassi amministrativa, la Risoluzione n. 102/E/2014), il cui mancato rispetto comporta la sanzione della decadenza dal diritto di utilizzare la disposizione legislativa in esame. Proprio la determinazione di questa sanzione produce due aspetti potenzialmente dubbi sui quali si propone una soluzione.

 

Il primo, legato alla possibilità di poter legittimamente utilizzare la disposizione legislativa di favore nell’annualità successiva a quella che, a seguito di accertamento, ha prodotto la decadenza dal diritto ad avvalersi della norma. A mio avviso se l’associazione nell’anno in contestazione “comunque” non aveva conseguito proventi commerciali superiori a 250.000 euro (limite di soglia al di sopra del quale si esce, per forza di legge, dal regime) tale diritto permane a prescindere che lo si sia perso nella stagione precedente a seguito di accertamento che ha rilevato movimentazioni non tracciabili sopra la soglia indicata. Sul secondo aspetto si ritiene che si debba, invece, ripartire da zero nel conteggio delle annualità (cinque) per le quali l’opzione per la Legge n. 398/1991 appare vincolante.

 

Va detto che, a prescindere da un positivo “riallineamento” dei limiti di pagamento per contante previsti per ogni soggetto, la norma introdotta con la Legge di Stabilità appare di scarso rilievo operativo per la vita delle associazioni. Associazioni che avrebbero, invece, (o perlomeno quelle che non ricorrono a comportamenti elusivi) ben volentieri barattato il limite dei pagamenti (mantenendolo alla vecchia soglia dei 516 euro) con un innalzamento più “importante” di quello dei versamenti. Troppe volte il rilievo sulla tracciabilità è legato da versamenti in contanti sopra soglia derivanti, ad esempio, dall’incasso di numerose quote associative pagate in contanti nella giornata precedente. Ma nonostante i numerosi interventi legislativi, di prassi amministrativi e di dottrina sulle modalità applicative di questa legge, alcuni aspetti continuano ad essere problematici. Ne evidenziamo al momento due.

Molte associazioni sportive che hanno optato per la Legge n. 398/1991 gestiscono, ad esempio, in convenzione con l’ente pubblico proprietario, impianti sportivi. Detti accordi prevedono anche un contributo a carico dell’ente proprietario.

 

Tale contributo – corrispettivo, ai sensi di quanto previsto dall’art. 143, comma 3, lett. b) del Tuir, viene decommercializzato e, come tale, non soggetto ad imposizione diretta. Ma analoga norma non viene prevista dal D.P.R. n. 633/1972 ai fini Iva. Ci troviamo, pertanto, di fronte ad un provento soggetto ad Iva ma non imponibile Ires. Detti importi versati alle sportive incidono o no nell’ammontare del plafond dei 250.000 euro ai fini della applicabilità della Legge n. 398/1991? E se, come si ritiene, non incidono, (e, pertanto, potrei aver già incassato per sponsorizzazioni l’importo massimo consentito e pagato forfettariamente la relativa Iva) potrò comunque assolvere l’imposta sul valore aggiunto godendo dell’abbattimento del 50%?

 

Consentiteci l’ultima provocazione, posta più volte e ancora senza risposta. Viene previsto che si esce dal regime della L. n. 398/1991 dal mese successivo a quello di “supero” del plafond.

 

Ma, quindi, nel mese in cui lo supero, posso fatturare “quanto voglio” e pagare tutto con il forfait? Sarebbe importante conoscere sul punto l’opinione della Amministrazione finanziaria.

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I buoni propositi dello sport per il nuovo anno

08/01/2015 di Guido Martinelli

Cari Direttori, vi voglio raccontare il sogno che ho fatto la scorsa notte. Ero certo di avere fatto uno scoop. Un mio informatore (le fonti delle notizie sono sempre riservate) segreto era riuscito a consegnarmi, per il solo momento di una veloce lettura, la letterina dei buoni propositi di comportamento amministrativo che lo sport italiano aveva scritto, pensate un po’, a Babbo Natale in cambio dei doni (leggasi contributo statale per il 2015) richiesti.

Ed eccoti il testo per come la mia memoria lo ricorda:

“Caro Babbo Natale, come ben sai la situazione economico – finanziaria del mondo dello sport è in forte tensione. Molti sports di squadra hanno ridotto il numero delle società partecipanti ai massimi campionati per .. carenza di candidati, nella seconda serie del basket si parla di 4 squadre che potrebbero non finire il campionato. Molti atleti riescono ad eccellere solo se fanno attività nell’ambito dei gruppi sportivi militari per carenza di fondi da parte delle società civili. Ti prego, aiutaci, con un consistente contributo economico e in cambio Ti promettiamo che:

  • Faremo in modo di non convocare più in nazionale atleti che abbiano trasferito la loro residenza all’estero solo per ragioni fiscali;
  • Cercheremo di eliminare la prassi, spesso elusiva, delle società con sedi in paesi a fiscalità agevolata, che gestiscono diritti di immagine di atleti italiani e con conseguente stipula di contratti di immagine di importi spesso assai superiori a quelli previsti per le loro prestazioni sportive;
  • Ci impegniamo a non tesserare più dirigenti il cui unico compito appare essere quello di venire rimborsati con i 7.500 euro esentasse previsti per le prestazioni sportive dilettantistiche;
  • Non considereremo più come semplici volontari persone che per poche ore di attività alla settimana percepiscono più di seicento euro esentasse al mese;
  • Prenderemo atto che i gruppi stranieri che vengono ad investire denari nell’acquisto di società sportive in Italia lo fanno non solo…..perché fare sport in Italia è bello;
  • Saremo consapevoli che non è possibile parlare di sbocchi occupazionali nell’ambito delle attività sportive, organizzare master a pagamento e offrirgli sempre e solo una prospettiva da … dilettanti;
  • Quando un gruppo di istruttori sportivi vorrà unirsi per lavorare insieme si impegnerà a costituire una cooperativa di produzione e lavoro e non farà una associazione sportiva dilettantistica;
  • Acquisiremo la consapevolezza che la crescita della nostra società sportiva non potrà mai essere proporzionale alla crescita del “moltiplicatore” delle fatture emesse agli sponsors e che tale comportamento costituisce un cancro da estirpare;
  • Non faremo più diventare sports qualsiasi attività del corpo o della mente al solo scopo di acquisire il diritto al godimento delle agevolazioni fiscali;
  • Non costringeremo più al tesseramento (con la solita motivazione delle esigenze assicurative ma in realtà con prevalenti obiettivi di risparmio fiscale) all’ente di promozione sportiva o all’acquisizione di uno status di associato chi ha come unico e solo suo interesse ed esigenza quella di fare attività fisica nell’impianto da noi gestito;
  • Non costituiremo più una serie di associazioni sportive, strumentalmente, con il solo fine di poter avere il diritto, per ognuna di esse, ad utilizzare il plafond dei 250.000 euro della legge 398/91;
  • Ci impegneremo affinchè chiunque lavori nello sport abbia adeguata tutela sanitaria e previdenziale;
  • Ci impegneremo affinchè chiunque nasca in Italia possa fare sport da italiano
  • Cercheremo di evitare che una stessa persona possa controllare, direttamente o indirettamente più di una società sportiva;
  • Cercheremo di evitare ogni collusione con la tifoseria che non si impegni a rispettare un preciso codice etico;
  • Cercheremo di adottare una legislazione di favore che avvicini alla pratica sportiva i giovani meno abbienti.

 

In realtà, cari Direttori, non era uno scoop. Era solo un sogno ma, credetemi, un gran bel sogno

 

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La nuova legge quadro sullo sport

19/11/2014 di Guido Martinelli

L’Agenzia delle entrate, il 13 novembre, avanti la commissione parlamentare che ha in corso l’esame del progetto di legge recante la delega al Governo per la riforma del Terzo settore, ha svolto una serie di considerazioni per una futura disciplina fiscale del settore degli enti non commerciali del tutto condivisibili e che possono costituire una interessante base di valutazione per la nuova riforma organica dello sport preannunciata dal Presidente del Coni. Che questa sia opportuna basti pensare basti pensare che la legge sul professionismo, la l. 91/81 ha già compiuto 33 anni e l’unica norma organica sul dilettantismo, l’art. 90 della legge 289/02 va per i 12.

L’Agenzia ha affermato che la fiscalità di vantaggio riconosciuta agli enti: “è imperniata quasi totalmente intorno alla rilevanza della loro non lucratività oggettiva, piuttosto che intorno a quella soggettiva. Tale atteggiamento trova le sue ragioni d’essere in una visione storica ed ideologica ben precisa che oggi non sembra collimare nè con la realtà del terzo settore nè con la sua funzione all’interno del sistema produttivo del paese”.

 

Prosegue affermando, appunto, che le entrate dei soggetti in questione derivano per il 47,3% dallo svolgimento di attività commerciali (e la sensazione è che, per le sportive, tale percentuale sia ben più alta) e che:”la realtà ha ampiamente superato la norma civilistica sdoganando definitivamente l’idea che gli enti non profit si qualifichino per la finalità non lucrativa e non per l’attività svolta che può anche essere commerciale”.

 

La considerazione che si debba ripensare l’attuale regime di tassazione del Terzo settore alla luce delle finalità di utilità sociale, della non lucratività soggettiva e dell’impatto sociale è auspicio che va proprio nella direzione in cui necessita in particolar modo vada una riforma dello sport in cui la gestione “commerciale” è assolutamente prevalente, come dimostra lo stesso art. 149 del Tuir laddove esonera le sportive dall’applicazione dei parametri di perdita dello status di ente non commerciale.

 

In un quadro “de iure condendo” il primo tema da affrontare non potrà che partire dalla definizione di attività sportiva dilettantistica e di quali siano i suoi confini. Sappiamo che l’attuale situazione, che la identifica per differenza da quella individuata come professionistica dalla legge 91/81, include in un unico contenitore normativo realtà socio economiche diversissime, che vanno dal tennista che vince un importante torneo internazionale al “palleggiatore” della domenica, dallo sciatore che vince (speriamo!!) la coppa del mondo a quello che scende a spazzaneve. Se questo, da un lato, rappresenta un aspetto della criticità dell’attuale disciplina, l’altro è che tutto sta diventando “sport”. Nella corsa all’accaparramento dei benefici fiscali (ricordo che quelli sul trattamento dei compensi sono appannaggio esclusivo delle attività sportive e di poche altre eccezioni in campo di bande, cori e filodrammatiche) a cui si unisce la volontà di alcune realtà nazionali sportive di puntare essenzialmente ed in maniera indiscriminata ad incrementare il proprio numero di tesserati, qualsiasi “attività” organizzata si faccia con il corpo o con la mente diventa”sport”. Altro aspetto è il ruolo centrale che debba avere la società sportiva. Ma, mi chiedo, per come è attualmente disciplinata sotto il profilo normativo, è idonea a regolamentare il momento sportivo che viviamo? Già l’esame del comma 17 dell’art. 90, laddove prevede sia la possibilità di costituire associazioni sportive secondo la disciplina del primo libro del codice civile sia società sportive di capitale basate sul disposto del quinto, ma entrambe accomunate dal minimo comune denominatore dell’assenza dello scopo di lucro mostra il primo equivoco da sciogliere. Se il legislatore dell’epoca aveva diviso le associazioni dalle società, individuando nelle prime un contenitore per attività con finalità etico – sociali e nel secondo per finalità economiche e/o di profitto,  è, credo, di palese evidenza che il volerli accomunare in una unica matrice, senza interventi correttivi, così come è avvenuto, diventa impresa che non può fare a meno di far emergere palesi criticità. Appare facile pensare che moderne associazioni sportive che possono raggiungere le centinaia se non le migliaia di associati, ben difficilmente potranno essere gestite con le finalità “associative” tipiche la cui assenza è sempre oggetto di rilievo in sede di accertamento da parte della Agenzia delle entrate. Anche le società di capitali sportive le quali, per poter godere di tutte le agevolazioni fiscali previste per lo sport devono prevedere il voto per testa e non per quote di possesso e la incedibilità delle stesse, due dei presupposti che costituiscono elementi essenziali della loro natura, per come li aveva immaginati il legislatore del codice civile. E veniamo all’aspetto fiscale: come dichiarato dalla stessa Agenzia si dovrà spostare l’attenzione dalle finalità oggettive dell’attività (così come sono oggi stabilite dall’art. 73 del Tuir: esercizio o meno di una attività commerciale) a quelle soggettive (distribuzione o non distribuzione di utili). E solo l’esistenza o meno del lucro soggettivo potrà dare diritto o meno al godimento delle agevolazioni fiscali previste per il mondo dello sport, indipendentemente dall’attività esercitata. Appare anacronistico che l’art. 2 del decreto legislativo 24.03.2006 n. 155 sull’impresa sociale non consideri “beni  e  servizi  di  utilità  sociale  quelli prodotti o scambiati” nell’ambito dello sport. Rivista la disciplina civilistica e fiscale dei soggetti che “fanno sport dilettantistico” sia sotto il profilo civilistico che fiscale, non resta, ultima ma non ultima, quella che riguarda gli aspetti “lavoristici”. Non possiamo ritenere che lo sport possa garantire sbocchi occupazionali ai giovani, laureare migliaia di giovani in scienze motorie, fare master in management sportivo e prevedere, poi, che debbano andare a fare i “dilettanti”. Il problema, oggettivo, che il sistema sport non genera le risorse necessarie ad un regolare inquadramento di chi opera nel settore non può più essere la scusa per non dare tutela a questi giovani.

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Soci o tesserati?

27/08/2014 di Guido Martinelli

Durante queste ferie estive con una collega abbiamo avuto modo di conversare sul tema della equiparazione della fattispecie del tesserato a quella dell’associato ad una associazione o società sportiva dilettantistica ai fini del godimento della agevolazione sui corrispettivi specifici a fronte delle prestazioni di servizi resi.

 

Il problema sembrava definito alla luce di una presa di posizione da parte della Agenzia delle entrate. “Con riferimento alle attività effettuate dalle società sportive dilettantistiche nei confronti dei frequentatori e/o praticanti che non rivestono la qualifica di soci, si ritiene che la disposizione agevolativa” di cui al combinato disposto dell’art. 148 Tuir e 4 dpr. 633/72 “si applichi a condizione che i destinatari delle attività risultino tesserati dalle rispettive organizzazioni nazionali (Coni, Federazioni sportive nazionali, enti di promozione sportiva)”  (R.M. n. 38/E del 17 maggio 2010).

 

L’assunto della equivalenza, ai fini fiscali, del tesseramento al vincolo associativo, riconosciuto dalla Agenzia delle entrate, condivisibile e conforme alla previsione delle norme citate, ha portato anche molte associazioni, al fine di limitare i problemi di governance e di partecipazione ai momenti assembleari, spesso oggetto di rilievo in sede di accertamento, a ridurre il numero degli associati per incrementare quello dei semplici “tesserati”.

 

Ma, una prima domanda sorge spontanea: chi sono i tesserati?

 

Innanzitutto, in via preliminare occorre precisare che il termine si usa con riferimento ai regolamenti dell’ente sportivo nazionale al quale il sodalizio sportivo è affiliato. Pertanto, più correttamente, andrebbe scritto tesserato alla Federazione o all’ente di promozione sportiva. Ai fini in esame è, del tutto irrilevante, la circostanza che l’associazione o società sportiva rilasci “anche” una sua tessera di riconoscimento che, come tale, non ha alcun rilievo giuridico.

 

La natura di un tesseramento ad una organizzazione sportiva nazionale riconosciuta dal Coni può avere una duplice valenza. In un caso, come accade quasi sempre con gli enti di promozione sportiva, costituisce prova dell’avvenuta instaurazione del vincolo associativo tra la persona fisica e l’ente nazionale avvenuto per il tramite della sportiva  e produce, in capo alla persona fisica, l’acquisizione dei diritti elettorali nell’ente di appartenenza, nell’altro, come accade, invece, quasi sempre con le Federazioni sportive nazionali, il tesseramento ha natura di atto amministrativo e costituisce una sorta di “autorizzazione”, di “patente” a partecipare all’attività sportiva organizzata da quella Federazione attraverso le squadre e l’attività del club sportivo presso il quale si tessera.

 

Definito ciò va subito affermato che, ai fini fiscali la diversificazione circa la natura del tesseramento è irrilevante e, pertanto, possiamo sicuramente affermare che, ai fini fiscali, il trattamento dei corrispettivi versato dai tesserati  all’ente sportivo nazionale presso il quale è affiliato il sodalizio sportivo che fornisce il servizio è equiparato al corrispettivo versato dall’associato al medesimo sodalizio indipendentemente dalla natura del tesseramento stesso.

 

Tutto risolto, quindi? Basta tesserare e risolviamo i problemi della carenza di vita associativa?

 

La cautela è d’obbligo.

 

Un primo problema è legato al perfezionamento del tesseramento. E’ certo che, affinché scatti la legittimazione dell’agevolazione fiscale in capo al tesserato, sia necessario che, all’atto del pagamento del servizio da parte del medesimo, questo tesseramento si sia già perfezionato. Il momento di conclusione dell’iter varia tra le diverse realtà sportive nazionali ma, non vi è dubbio, non può definirsi concluso “almeno” prima che almeno i dati del nuovo tesserato siano comunicati alla segreteria generale della Federazione o dell’Ente di promozione sportiva.

 

Fino a quel momento la persona fisica è da considerarsi “terzo” pertanto, come tale, soggetto nei confronti del quale non potrà mai scattare il diritto alla defiscalizzazione del corrispettivo (“.. si precisa che l’attività esterna degli enti associativi cioè quella resa nei confronti dei terzi, non rientra di regola nella sfera di applicazione delle norme agevolative sopra riportate ..” C.M. n. 12/09 e, meno recente, C.M. n. 124/98).

 

Ma ciò potrebbe continuare a non essere sufficiente. Infatti, come insegna la Suprema Corte ( C. Cass. sez. V sent. n. 4147 del 20.02.2013), sarà comunque necessario che l’ente sportivo oggetto di accertamento dimostri “che l’attività svolta non aveva natura commerciale” e superi, pertanto, dimostrando, ad esempio, l’avvenuto perfezionamento del tesseramento in momento antecedente a quello di pagamento del servizio, “la presunzione della natura commerciale delle prestazioni fornite e dei beni ceduti dietro corrispettivo”.

 

Infatti non tutte le prestazioni di servizi a fronte delle quali l’associato o il tesserato versi un corrispettivo specifico possono essere ritenute defiscalizzate ma solo quelle svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali di natura “non commerciale”.

 

E qui, come se fossimo in un monopoli impazzito si pone la domanda: può una società sportiva dilettantistica senza scopo di lucro, ente commerciale per disciplina civilistica e fiscale (vedi sul punto anche la circ. 21/03) avere una attività istituzionale “non commerciale” ?

 

Con la collega, consapevoli della difficoltà della risposta, arrivati a questo punto, abbiamo optato per andare a farci il bagno.

 

 

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Ma è così difficile applicare quattro norme?

28/07/2014 di Guido Martinelli

Una recente sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Bologna ( sez. 13 sent. 928 – 13 – 14 depositata il 12.06.2014) impone di fare il punto sulla disciplina fiscale delle associazioni e società sportive dilettantistiche che, se pur limitata a pochissime norme, continua ad essere martoriata in sede di accertamento, (vedi la sentenza indicate) e nei conseguenti giudizi.

 

Premessa. Perché ci sia un ente di tale natura occorre la sussistenza di tre requisiti: essere costituiti sulla base di quanto disposto dall’art. 90 commi 17 e 18 della legge 289/02, essere affiliato ad una Federazione sportiva nazionale, ente di promozione sportiva o disciplina sportiva associata ed essere riconosciuto ai fini sportivi dal Coni mediante iscrizione al relativo registro (requisito obbligatorio dal 2011, pertanto fortemente censurabile appare sul punto la sentenza sopra ricordata) 

 

Normalmente, negli accertamenti, i rilievi ruotano attorno a tre norme: l’art. 67 primo comma lett. m del Tuir, la legge 398/91 e il combinato disposto di cui all’art. 148 Tuir e 4 Iva.

 

Partiamo da quest’ultimo. La defiscalizzazione dei corrispettivi specifici (proventi dei corsi, tanto per intenderci) non è legata allo status di associazione o società sportiva dilettantistica come tale ma solo a quelle che abbiano inserito in statuto i c.d. “paletti” antielusione specificamente dettagliati nella norma e distinti ed ulteriori rispetto a quelli richiesti dal già citato art. 90.

 

Pertanto ci potranno essere anche legittimi sodalizi sportivi che non avendo interesse all’applicazione della norma non introducono nel proprio statuto le norme indicate dagli articoli in esame e non avranno diritto a godere di dette agevolazioni fiscali per scelta ponderata (ad esempio non assoggettando ad imposta di registro lo statuto) o
enti sportivi che la applicano senza averne i requisiti.

 

In quest’ultimo caso avremo che, si presume in modo fondato, l’accertatore dichiari l’insussistenza dei presupposti e recuperi a tassazione gli importi non assoggettati ma ciò non significa che l’ente non sia più riconducibile alla fattispecie delle associazioni o società sportive dilettantistiche, almeno solo a causa di ciò. Pertanto, sussistendone i rimanenti requisiti di seguito descritti, ad esempio, risulterà illegittimo un eventuale recupero sulle mancate ritenute applicate sui compensi fino a euro 7.500 o la ripresa dei medesimi ai fini Irap. Ci dovrà essere, invece, il ricalcolo dell’iva in regime di rivalsa su quella pagata sui costi di natura commerciale e la determinazione analitica del reddito per differenza anche qui tra componenti positive e negative di natura commerciale (ovviamente ove se ne sia tenuta adeguata documentazione e registrazione).

 

Passiamo alla legge 398/91. Da questo regime si esce solo per il realizzarsi di uno dei seguenti casi: 

  • carenza del presupposto soggettivo in quanto si dimostra che l’ente ha scopo di lucro (si ricorda che tale concetto è diverso da quello di ente commerciale, le società di capitali sportive dilettantistiche sono enti commerciali ma non hanno scopo di lucro);
  • superamento del limite dei 250.000 euro annui di proventi commerciali;
  • come sanzione a seguito della mancata tracciabilità di incassi o pagamenti.

 

Pertanto del tutto irrilevante appare la circostanza che l’ente abbia applicato “non correttamente” la disciplina di cui all’art. 148 Tuir e, addirittura, anche nel caso in cui non sia riconducibile alla fattispecie delle società e associazioni sportive dilettantistiche. Ciò in quanto la legge in esame è applicabile da parte di tutti gli enti senza scopo di lucro a prescindere dalla loro natura commerciale o meno. Ne consegue che il venir meno della natura “sportiva” dell’ente, come tale, non fa venire automaticamente meno il diritto ad applicare la legge 398/91.

 

Ultimo aspetto da analizzare è il campo di applicazione dell’art. 67 primo comma lett. m del Tuir. Come recita testualmente la norma un eventuale riconoscimento della commercialità dell’attività appare irrilevante ai fin idi una eventuale inapplicabilità della norma in quanto questa trova effetto ove il corrispettivo sia corrisposto: “da qualunque organismo comunque denominato che persegua finalità sportive dilettantistiche” e che sia riconosciuto dal Coni o dalle Federazioni sportive nazionali riconosciute.

 

Non essendo collegato ad altra norma l’applicabilità è slegata sia dall’art. 148 Tuir che dalla legge 398/91 e rimane legato solo al riconoscimento sportivo che a mio avviso, in questo caso, è costituito solo dalla affiliazione e non necessariamente anche dalla iscrizione al registro.

 

In presenza di detto requisito il venir meno dell’applicabilità dell’art. 67 Tuir potrebbe essere legato solo ad un diverso inquadramento civilistico del rapporto tra lo sportivo e il club di appartenenza (ad esempio in presenza di connotati di rapporto di lavoro subordinato) che si ritiene, però, non possa avvenire ad opera esclusiva di funzionari della Amministrazione finanziaria.

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Può una palestra farsi pubblicità?

10/07/2014 di Guido Martinelli

Ogni tanto, a fare la professione, ti capita di sentirti chiedere le cose più strane. A me, oggi, una associazione sportiva dilettantistica mia cliente, che gestisce un centro sportivo,  mi ha chiesto: “ma io come posso fare pubblicità alla mia attività?”. Di istinto avrei voluto rispondere che si sarebbe dovuta rivolgere ad un esperto di comunicazione, non essendo ancora io un tuttologo. Poi mi sono ricordato che proprio le modalità di comunicazione verso l’esterno stanno diventando presupposto, innesco di accertamenti da parte dell’Agenzia delle Entrate e mi sono chiesto come rispondere. Ciò anche al fine di evitare che una campagna associativa male impostata possa essere causa di dispiaceri in caso di verifica.

 

Le conseguenze, sotto il profilo fiscale, delle modalità di comunicazione tra un gestore “profit” di un centro sportivo e uno “non profit” (o meglio non commerciale) sono date proprio dagli obiettivi che queste campagne comunicazionali si propongono. Se entrambi i soggetti si rivolgono al medesimo “mercato” vendendo la stessa tipologia di servizi alla collettività indifferenziata, alla generalità dei richiedenti non vi è dubbio che la conseguenza sarà lo svolgimento, per entrambi, di una attività c.d. commerciale con il conseguente assoggettamento ad imposte sui redditi e ad iva del relativo corrispettivo.

 

Quindi il proporre, da parte di associazioni sportive campagne di abbonamento per accessi periodici al centro, l’iscrizione a corsi, magari con tariffazione diversa a seconda delle fasce orarie o giornaliere o sulla base del tipo di corso prescelto, senza il dover verificare la sussistenza di alcun requisito preliminare di accesso (pertanto io che leggo il messaggio pubblicitario non devo verificare se possiedo o meno le condizioni presupposte per partecipare a quel tipo di attività e iscrivermi alla palestra che mi interessa) produce come conseguenza che ci si pone in regime di libera concorrenza con le imprese “profit”; non vi è dubbio, in tal caso, che la conseguenza non potrà che essere quella di dover operare con le medesime regole e, quindi, con assoggettamento ad imposizione diretta e indiretta dei corrispettivi specifici a tal fine riscossi.

 

In cosa si deve differenziare, quindi, la campagna di comunicazione della nostra associazione che voglia continuare, invece, l’opera di defiscalizzazione di detti corrispettivi.

 

Non dovrà essere una promozione di vendita servizi quanto una campagna tesa all’incremento della base associativa.

 

Le più importanti organizzazione di charity che operano in Italia inviano alle loro mailing list delle richiesta di adesione, di associazione al loro ente. “Diventa nostro socio e così potrai o farai..” Questa deve diventare la convinta politica di comunicazione del nostro soggetto non profit: io non voglio fare vendita ma aumentare il numero dei miei associati, delle persone che condividono le mie finalità. A tali persone, poi (ma solo in ordine temporale successivo) offro la possibilità, a pagamento, di partecipare all’attività svolta, tra cui quella di gestione di un centro sportivo e la partecipazione ai corsi di attività motoria che vengono disputati all’interno. Questo è il messaggio che deve emergere.

 

Quindi deve essere chiaro, sin dal primo contatto (medesima filosofia dovrà essere imposta anche al sito internet del centro), che il soggetto che per qualsivoglia motivo non voglia associarsi, è consapevole che non potrà frequentare quello specifico impianto sportivo.

 

Ne deriva che l’ammissione a socio (con relativo perfezionamento del vincolo mediante accettazione della proposta), non solo nella forma ma anche nella sostanza, è condizione preliminare presupposta e necessaria per poter poi non assoggettare ad imposizione la quota che viene così versata.

 

Attenzione, pertanto, a quelle clausole statutarie che prevedono che l’ammissione a socio non si perfezioni fino alla accettazione della proposta da parte del consiglio direttivo. Questo significa che fino a quando ciò non avverrà, le quote eventualmente versate non potranno godere di alcuna agevolazione fiscale.

 

Si ricorda che l’art. 148 del Tuir equipara agli associati i tesserati per la medesima organizzazione sportiva nazionale o territoriale di riferimento.

 

Pertanto, nel caso in cui non si voglia/possa associare, l’agevolazione fiscale mantiene la sua ragione d’essere in presenza di tesseramento, perfezionato anche in questo caso, alla Federazione sportiva nazionale o all’ente di promozione sportiva a cui il centro aderisca.

 

Come si vede il come si fa pubblicità e in favore di cosa la si fa costituisce spartiacque per il godimento legittimo o meno della defiscalizzazione del corrispettivo.

 

Una concezione della comunicazione in termini di impresa, di servizi o di abbonamenti da vendere, inevitabilmente porta a considerare l’attività tra quelle commerciali rientranti all’interno della fattispecie di cui all’art. 2195 del codice civile.

 

E’ certo che dopo 30 anni di avvocatura non avrei mai pensato di dovermi occupare anche di campagne di comunicazione …. 

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Una modesta proposta sul lavoro sportivo dilettantistico

06/06/2014 di Guido Martinelli

Il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, con la sua ormai nota circolare del 21 febbraio scorso, aveva ravvisato “l’opportunità di farsi promotore, d’intesa con l’Inps, di iniziative di carattere normativo, volte ad una graduale introduzione di forme di tutela previdenziale a favore dei soggetti che, nell’ambito delle associazioni e società sportive dilettantistiche riconosciute dal Coni, dalle Federazioni sportive nazionali nonché dagli enti di promozione sportiva, svolgono attività sportiva dilettantistica nonché attività amministrativo – gestionale non professionale ex art.67 comma 1 lett. m) ultimo periodo del Tuir”.

 

La gradualità si è già scontrata con la realtà dei processi in corso che, nella ormai generalità dei casi, appaiono statuire l’esistenza di un rapporto di lavoro soggetto a contribuzione (sarei lieto di venire a sapere dell’esistenza, da un anno a questa parte, di sentenza che abbiano respinto le pretese contributive a fronte di prestazioni di istruttori sportivi).

 

Ritenuto necessario, quindi, dare certezze ai soggetti organizzatori di attività sportive quanto prima, approfittando del momento apparentemente favorevole (abbiamo in rampa di lancio legislativo sia i decreti applicativi della legge delega fiscal che la legge delega sul terzo settore), provo a sottoporre all’opinione di tutti una modesta proposta che nasce da alcuni approfondimenti svolti con il centro studi fiscalità e diritto dello sport di Bologna.

 

Il punto di partenza appare essere quello del ritorno, sotto il profilo concettuale, alla disciplina esistente fino all’entrata in vigore della legge 342/00 la quale ha eliminato ogni limite all’ammontare dei compensi sportivi qualificati come redditi diversi. Ossia, superate le varie soglie di defiscalizzazione, il compenso perde ogni tipo di agevolazione fiscale ma mantiene la sua natura di “reddito diverso”.

 

Durante il vigore della vecchia legge 80/86 e della successiva L. 133/99 (testo originale pre -emendamento) esisteva un limite di defiscalizzazione (per ultimo dieci milioni di lire) al superamento del quale scattavano tutti gli obblighi fiscali connessi ad un inquadramento come collaborazione coordinata e continuativa (ossia reddito parificato a quello di lavoro subordinato) con conseguente disciplina non solo sotto il profilo fiscale ma anche previdenziale e assicurativo .

 

La fattispecie che si propone mantiene i medesimi presupposti.

 

Una soglia di esenzione, di “non reddito” previa adeguata modifica all’art. 52 del Tuir pari a euro 8.000 (con un lieve incremento rispetto all’attuale di 7.500 ma nella soglia coperta dalla detrazione per lavoro dipendente) e, perla parte eccedente, un inquadramento come reddito parificato a quello di lavoro subordinato di cui all’art. 61 comma 3 d.lgs. 276/2003.

 

Non concorrendo i compensi sino a ottomila euro a formare reddito la base imponibile ai fini della contribuzione previdenziale coinciderebbe con quella fiscale. Al superamento della soglia scatterebbe anche l’obbligo di iscrizione alla Gestione separata Inps, di versamento dei premi all’Inail (per parasubordinazione, con conseguente riduzione dei costi assicurativi connessi al tesseramento sportivo) e di ottemperamento a tutti gli adempimenti disposti dalla normativa generale per le co.co.co.

 

A livello di contribuzione Inps (Gestione separata cococo, non spettacolo) si applicherebbe sull’imponibile l’aliquota piena per tutti i soggetti privi di altra copertura previdenziale obbligatoria e non pensionati e quella ridotta per tutti i soggetti già iscritti ad altre forme di previdenza obbligatoria o già titolari di pensione. 

 

La disciplina dei premi sarebbe estromessa dal regime attuale per ipotizzare un ritorno al regime, oggi abrogato, che era previsto dall’art. 3 della legge 80/86, ossia l’applicazione della ritenuta a rivalsa facoltativa prevista dall’art. 30 comma due d.p.r. 600/73 con una franchigia da quantificare. All’epoca era pari a centomila lire.

 

Dovrebbe essere introdotta una sanatoria per tutte le operazioni sui compensi effettuate fino alla data di entrata in vigore di questo nuovo provvedimento (facendo decadere anche gli accertamenti in essere anche se portati da sentenze passate in giudicato) e dovrebbe essere previsto un meccanismo di certificazione “gratuito” sulla legittimità di questi accordi.

 

Sia pure con un costo non trascurabile per il movimento sportivo (ma comunque inferiore agli inquadramenti previsti dagli attuali accertamenti nella gestione spettacolo) la proposta potrebbe offrire certezze al soggetto gestore ed un minimo di tutele al lavoratore, tutele oggi del tutto assenti nel rapporto sportivo dilettantistico.

 

E’ vero che avremmo un coinvolgimento anche degli atleti, oggi esclusi dalla attuale campagna di accertamenti ma, forse, anche per loro una maggiore tutela non guasterebbe. Tutela, del resto, che era già loro riconosciuta dalla disciplina vigente prima della entrata in vigore della legge 342/00.

 

 

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